Un marziano a Roma, 2



Ora che il progetto di Richard Meyer per l’Ara Pacis a Roma è stato completato, dopo la teca, si può meglio valutarne tutta l’incongruenza rispetto al tessuto urbano, e di qui la superficialità del progettista e insieme il provincialismo e l’incultura di chi l’ha chiamato, al di fuori da una trasparente procedura concorsuale.
Un muretto in travertino occlude la visibilità della chiesa di s. Rocco, e una ridicola fontanina completa il tutto: nella città delle acque monumentali, Meyer avrebbe avuto fior di modelli cui ispirarsi.

Solo ora, a cose fatte, si pensa a riprogettare il disgraziato cratere di Piazza Augusto Imperatore - da cento anni a questa parte campo di esercitazione di ogni piccone risanatore. Dal Guggenheim di New York al Getty di Bilbao, la teca è ormai più importante del contenuto, e pazienza. Ma il cuboide di Meyer ha fatto di peggio: inserito a forza in un contesto storico, è lì per restare, e sarà lui, e non più il miserando rudere dell’Augusteo, il vero protagonista attorno al quale armonizzare la nuova piazza.

Quando visitai la piramide di I.M. Pei appena inaugurata di fronte al Louvre, pur impressionato dalla grandiosità visionaria del progetto mitterrandiano, mi consolavo pensando che, se a Roma non si costruivano architetture moderne, nemmeno si vedevano simili scempi nei contesti storici, fortunatamente tutelati da sovrintendenze magari conservatrici al parossismo, ma coscienti della propria missione.

Da qualche anno invece a Roma si ricomincia a costruire, e la città si è inserita con successo nel circuito dell’architettura spettacolo, con opere e progetti di architetti famosi (oltre a Meyer, Piano, Hadid, Fuksas, Calatrava, Decq). Sono le cosiddette ArchiStar: creatori (al computer) di forme avveniristiche, di linee ardite, di oggetti levigati che planano sulle città come UFO, indifferenti tanto al contesto che alla loro destinazione : ci vuole una croce per capire che un "robo" è una chiesa.

Quella che visibilmente manca è una committenza domestica che abbia una sua idea forte di città, una visione complessiva, coraggiosa ma solidamente fondata su un’ampia cultura. Bernini, nel costruire il colonnato di S.Pietro, non fece che eseguire un ben preciso programma ideologico e spirituale. La sua creatività, lungi dall'esserne frenata, si giovò a trovarsi imbrigliata da dettagliate prescrizioni dei suoi committenti. Ma nessuno oggi saprebbe dire ai grandi e capricciosi architetti che cosa progettare e come.

Così, alla fine, l'ultima idea 'forte' di città resta quella mussoliniana:
ed infatti, all'Ara Pacis è stata solo rifatta una teca, più bella di quella di Ballio Morpurgo, certo, ma senza cambiare di una virgola l'impianto urbanistico fascista.
Ed è ancora l’impostazione fascista delle cittadelle isolate (la Città Universitaria, Cinecittà), denunciata da Bruno Zevi nelle sue memorabili polemiche, il modello alla base del proliferare di altre città e ‘case’ (della musica, della letteratura, della donna, della memoria, dell’architettura, e via dicendo) .

Intorno poi, la solita Roma - caos di segni chiassosi (paline, cabine, lampioni, cassonetti, cabine telefoniche, pubblicità),
eterogenei per foggia e colore - vive il suo quotidiano testimoniando l'incomunicabilità tra l'immaginazione dei grandi designer e l'insipienza dei tecnici comunali, con le loro orribili staccionate, scogliere artistiche, vialetti in ghiaia e compagnia cantando.
Occorre ricordare che Haussmann seppe imporre in Parigi non solo un disegno urbanistico e architettonico, ma anche uno stile coerente ed elegante di tutte le utilities? Che Barcellona è stata arricchita non solo da megaprogetti, ma da una cura meticolosa e sapiente dell'arredo urbano orchestrata dai suoi tecnici municipali?

Il motto della nuova Roma rutello-veltroniana potrebbe essere il celebre aforisma di Leo Longanesi:
"In Italia, alla manutenzione si preferisce l'inaugurazione".

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Sullo stesso tema, in questo blog: "Un marziano a Roma"



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