La Città Ideale



Per tutta la seconda metà del secolo XX il governo delle città si è basato su una alleanza tra architettura e politica “democratica”, nell’illusione che queste due discipline insieme potessero essere agenti del cambiamento e strumento di redenzione sociale. Gli esiti sono stati sconcertanti e francamente disumani. I luoghi più malfamati delle nostre periferie (lo ZEN di Palermo, Corviale o Tor Bella Monaca a Roma) hanno tutti la firma di architetti di rango. Cimiteri di buone intenzioni, inguardabili per quanto sono brutti.

Oggi le moderne “Archistar” non hanno più simili preoccupazioni umanistiche e filantropiche. A capo di studi con centinaia di progettisti, sono in grado di sfornare qualunque cosa, per qualunque luogo. Superfici vetrate, materiali prestigiosi, la loro firma è come una griffe su un prodotto di lusso.

Quanto alla politica, ha perso completamente la bussola. Incapace di esercitare una committenza forte, di dare una direzione allo sviluppo delle nostre città sempre più caotiche, si fa ormai dettare l’agenda dalla rendita fondiaria.

Per riflettere criticamente sul triste e parallelo destino di Politica e Architettura, che oggi appaiono definitivamente appiattite sugli interessi speculativi, è interessante la lettura di un paio di libri recenti, focalizzati sulla realtà romana.

Il primo, che mi ha lasciato assai freddo, è “Roma. La nuova architettura” di Giorgio Ciucci, Francesco Ghio, Piero Ostilio Rossi, una rassegna delle politiche urbanistiche e degli interventi architettonici che hanno caratterizzato Roma dal 1990 ai nostri giorni, dai campionati del mondo di calcio Italia 90, alla redazione del nuovo piano regolatore del 1993, fino alle celebrazioni del Giubileo 2000. A Roma si sta costruendo, certo: il MAXXI di Zaha Hadid, il Macro di Odile Decq, la chiesa di Tor Tre Teste e la nuova sistemazione dell'Ara Pacis di Richard Meier, la sistemazione della Biblioteca Hertziana (tentacolo di quella nauseante istituzione che è il Max Planck Institut!) di Juan Navarro Baldeweg, l'ampliamento della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Diener & Diener, il Centro Toyota di Kenzo Tange. E per il futuro ci sono progetti di Renzo Piano, Carlo Aymonino, Tommaso Valle, Massimiliano Fuksas, Rem Koolhaas, Paolo Desideri, Vittorio Gregotti, Manuel Salgado, Richard Rogers, Santiago Calatrava, Herman Hertzberger, Francesco Cellini, Giacomo Borella.

Nomi noti, spesso stranieri, come si vede, quasi sempre scelti senza passare attraverso la procedura democratica del concorso. Sembrano trascorsi secoli dall’epoca in cui l'architettura romana era in grado di schierare talenti di assoluto rilievo internazionale (Moretti, Ridolfi, Nervi…), capaci di suscitare l’interesse della committenza straniera.

Ma non è questo il punto. Le nuove architetture planano come il Marziano di Flaiano su una città disordinata e abbandonata a sé stessa, senza risolvere alcun problema strutturale. Belletto sul cadavere, occasione di spot pubblicitari per il sindaco di turno, e di grandi affari nel retrobottega. Nient’altro.

Lungi dall’essere sintomo di “una rinnovata coscienza urbana”, come dicono i curatori, c’è una singolare continuità con la storia dell’urbanistica romana. Anche i Papi riempirono Roma di architetture meravigliose. Però furono del tutto disattenti alle infrastrutture urbane, che rimasero, fino al 1870, praticamente le stesse dell’epoca imperiale. Capaci di alzare chiese, cupole, palazzi, non costruirono un solo nuovo ponte sul Tevere, né strade né fognature, né illuminazione pubblica. Alla Presa di Porta Pia, Roma appariva un paesone disseminato di monumenti. Un tripudio dell’architettura e al tempo stesso una sconfitta dell’ingegneria civile.

Più o meno, la storia si ripete. A Roma si “fanno” cose, che danno l’impressione che la città si evolva. Ma in realtà le dinamiche sono ben altre.

Si legga allora l’istruttivo "Avanti c’è posto. Storia e progetti del trasporto pubblico a Roma", (Donzelli) di Walter Tocci, Italo Insolera, Domitilla Morandi, da pochi giorni in libreria. Tocci è stato vicesindaco di Roma e assessore alla Mobilità dal 1993 al 2001, quando fu sindaco Francesco Rutelli (con i magri risultati che sono sotto gli occhi di tutti). La sua è una candida e sconcertante dichiarazione di impotenza e di subordinazione agli interessi fondiari (“A Roma la forza unificante dell’economia del mattone ha sempre vinto sulle differenze degli ordinamenti politici” [p. 93]), di continuità con la politica di espansione a macchia d’olio degli anni ’60 che ha portato a costruire in zone del tutto scollegate ed inaccessibili al trasporto pubblico.

Alla fine del libro Tocci si domanda “perché in un lungo ciclo di buongoverno come quello dell’ultimo quindicennio, non sia stato possibile compiere una svolta nella politica urbanistica” (p. 124). Ma come? Uno confessa di non aver saputo dominare le logiche speculative, di non aver saputo invertire la rotta dell’espansione a macchia d’olio della città, di aver mandato centinaia di migliaia di persone ad abitare in mezzo alla campagna, in quartieri scollegati dal trasporto pubblico… e poi ha la spudoratezza di chiamarlo “Buongoverno”?
Meravigliosa la conclusione: “Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica non ci può essere nessuna politica della mobilità in grado di risolvere il problema. Anche i piani di traffico più ambiziosi sarebbero come il tentativo di svuotare il mare con un secchiello" (p. 113). Già! E a chi spettava modificare le regole, se non a uno che è stato al potere per così tanto tempo?

Ma niente, è come se la politica fosse su un piano inclinato, incapace di invertire la rotta. Così, per esempio, si va avanti con il Museo della Shoah a Villa Torlonia, un mostro di 10000 metri cubi ficcato a forza in un luogo già saturo, tra una villa storica e una strada troppo stretta, senza una preventiva valutazione di impatto ambientale. Si è deciso, non si sa bene come, e si farà. Il sindaco ex neofascista Alemanno (che pure era stato eletto per segnare una inversione di rotta) non può permettersi politicamente di cambiare idea.

Continuità è la parola d’ordine. Bruno Zevi segnalava che gli interventi urbanistici del fascismo consistevano nel costruire “Città” isolate da alti muri e del tutto impermeabili al contesto circostante: la città del Cinema, la città Universitaria, etc.

Così, nella Roma del 2008 la campagna romana è ormai tutta terreno edificabile, grazie alla logica incosciente del “programmar facendo” di Rutelliana memoria. Centri commerciali circondano il Raccordo, le case fotocopia dei vari Carlino e Caltagirone sorgono dovunque. I nuovi interventi architettonici inseriti a forza in un contesto sempre più degradato ed incivile non basteranno a redimerlo. Essi saranno al contrario il paravento dietro al quale si potranno fare gli affari più loschi, il tappeto sotto cui nascondere il marcio.

L'asservimento di Politica & Architettura appare un triste paradigma della nostra democrazia.

Roma
nell’Ottocento, pur arretrata, poteva apparire una città arcadica, con le pecore che pascolavano tra le rovine. La Roma del XXI secolo è e sarà un delirio di vetrocemento, di asfalto e di lamiere.

Niente male come risultato del… Buongoverno!

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Vedi anche Milano da morire: le nuove strategie speculative
nel capoluogo lombardo


Commenti

  1. Ah, per carità. Ci sarebbe anche da domandarsi che fine ha fatto quel naturale senso dell’equilibrio che ha costruito nostri centri storici. Nati tutti senza una preventiva pianificazione, spontanei ed autocostruiti esattamente come le borgate di oggi, eppure così uniformi stilisticamente, e così umani. L’autocostruzione negli ultimi sessant’anni ha invece prodotto solo baracche squallide, mentre i tanto declamati ‘standard’ (alla luce dei quali i centri storici dovrebbero essere rasi al suolo) dei quartieri che definire disumani è poco. Tu dici che non c’erano esempi da seguire? C’erano eccome, caro mio! L’urbanesimo per l’Italia era una novità, ma per l’Europa avanzata e l’America no. Fu l’architettura collettivista a voler imporre il suo modello, il falansterio, e i cittadini fuggirono costruendosi la villetta con un paio di metri quadrati di giardino per far razzolare cane e pupi. Abusiva, perché, a parte Casalpalocco, il mercato non offriva niente di tutto ciò. La congiura tra chi avversava ideologicamente la casetta unifamiliare come il primo passo del riflusso nel privato, e la speculazione fondiaria, che premeva per l’edificazione intensiva, hanno fatto il resto. “Il condominio, ultimo baluardo della convivenza civile”? Macché. Sappi che i Tribunali sono intasati dalle liti di condominio, che assommano a un terzo del totale del contenzioso.
    Mayer a Roma ha costruito due architetture perfettamente indifferenti al contesto. Solo che a Tor Tre Teste il contesto era una tale schifezza che non poteva che migliorare, mentre nel centro storico occorreva più accortezza. Ne ho parlato in un paio di post dal titolo “Un marziano a Roma”
    E a proposito: l’aumentato valore di mercato dei palazzoni degli anni ’50 nasce da una sola loro qualità: sono vicini al centro. Ho dipendenti che affrontano quotidianamente un’odissea per venire a lavorare in centro. Vai a chiedere a loro se sono così soddisfatti. No che non lo sono. Ma che alternative hanno?

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