Buonismo e perdonismo

Un altro omicidio violento ed inspiegabile. Ed implacabili, le due domande standard dei TG ai parenti delle vittime: "Lei cosa prova?" e "Lei perdona gli assassini?". Mai, dico mai, uno che risponda: 'Ma naturalmente sono contentissimo che abbiano ammazzato mia madre!'.

Le due domande, così banali da far sembrare un genio Gigi Marzullo, hanno in realtà uno scopo ben preciso: occorre servire in prima serata emozioni forti, dolore e perdono, e per questo i giornalisti non esitano a fare i guardoni nei sentimenti altrui. Sollecitando l'esternazione di un dolore scontato e che un po' di umano tatto vorrebbe rimanesse coperto da riserbo, e subito dopo l'assoluzione delle vittime che è anche autoassoluzione. Perché volere giustizia in questo paese dalla giustizia smandrappata e spettacolarizzata costa. E perché bisogna ammannire ai buoni borghesi che stanno a tavola la loro razione di buoni sentimenti quotidiani.

Niente faide, certo, non sta bene. Nella relazione al codice penale - che da noi, giova ricordarlo, è ancora quello fascista di Rocco - si trova scritto che uno dei motivi della repressione dei crimini è nell'evitare vendette private. Insomma, si tutelano la vita, la libertà, la proprietà dell'individuo non in sé, ma soprattutto in funzione dell'ordine pubblico. Come nel medioevo, occorre ridurre il crimine a fatto privato, che può essere risolto dal perdono dei parenti delle vittime, all'insegna del "chi muore giace...".

Se dunque i reprobi non perdonano subito, davanti al grande confessionale dl TG, dovranno anche giustificarsi: "Vogliamo solo giustizia, non vendetta". Dobbiamo essere tutti angeli, persino nei momenti in cui siamo più crudelmente offesi.

Il buonismo è una declinazione di un cattocomunismo confusionario nostrano, che ha fatto propria la convinzione, falsamente filantropica, dell'intima bontà dell'essere umano. Senza rendersi conto che tale assunto è di chiara matrice illuminista, dunque profondamente anticristiano.

Ma la banalizzazione televisiva del perdono ha contagiato tutti, anche i preti. Dimentichi che il perdono è qualcosa che deve essere maturato lentamente e coscientemente, lo sollecitano - anch'essi di fronte alle telecamere - a prescindere dal pentimento del colpevole. Il quale si affretta a domandarlo in vista del processo, dove peraltro continuerà - il briccone - a difendersi e a cercare la pena minore possibile, se non l'assoluzione.

Contraddittorio, no? Il vero pentimento richiede la confessione e l'espiazione.
I vecchi teologi conoscevano bene la differenza tra "Contrizione" - pentimento perfetto profondo e accorato per una colpa commessa, rimorso e riconoscimento dei propri peccati determinato dall’amore verso Dio - e "attrizione" - pentimento per i peccati commessi che deriva dal timore del castigo. Ed infatti Melville, nel Moby Dick (Cap IX) mette in bocca al predicatore Padre Mapple le seguenti parole: 

"Qui sta il sincero e pio pentimento: che non reclama il perdono, ma è grato della punizione".

Ma i tempi lunghi della presa di coscienza del male e della riconciliazione non vanno d'accordo con la scaletta dei telegiornali. Che esigono il dolore esibito e la lacrimuccia facile.

Quando un immenso uomo di fede come il teologo Hans Urs Von Balthasar, elaborò l'ardita teoria per cui "l’inferno c’è ma la misericordia di Dio potrebbe anche renderlo vuoto", ebbe una intuizione illuminata e folgorante della natura di Dio, la cui misericordia non nega la giustizia (unicuique suum tribuere), ma la supera. Un'idea forte e rigorosa, capace di superare millenni di antropomorfismo.

Nulla a che vedere con il buonismo pappamolle che vuole sfumare la linea di confine tra onesti e delinquenti, tra persone integre e malfattori, rinunciando alla giustizia in nome di un paternalistico e rassegnato "chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato".

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