Ospedali inospitali



Ricoverato in un ospedale pubblico di Roma per rimuovere certe fastidiose ed ormai inutili pendenze (foto), non posso che riportare alcune impressioni, non del tutto positive, sulla qualità dell’assistenza. “Ospedale” dovrebbe voler dire ‘luogo ospitale’: a me è sembrato piuttosto di essere parcheggiato in un deposito.
Tanto per cominciare, sono stato ricoverato con quattro giorni di anticipo rispetto all’intervento, poi slittato di un altro giorno. La motivazione, piuttosto paradossale, è che si era liberato un letto, e dovevo occuparlo, altrimenti qualcuno arrivato per emergenza al pronto soccorso me lo avrebbe portato via. Proprio così: io e molti altri pazienti abbiamo passato giorni e notti semplicemente a fare i segnaposto. Per di più col pensiero che stavamo forse impedendo a qualche poveraccio di essere curato con urgenza. Logica vorrebbe che venissero tenuti dei posti sempre liberi per le emergenze. E che i pazienti venissero ricoverati solo alla vigilia dell’intervento, e dimessi quanto prima, proprio per tenere i letti il più possibile sgombri. Quanto è costato alla collettività questo lungo ricovero? Si parla tanto di sprechi nella sanità: io credo che con una migliore programmazione se ne potrebbero evitare parecchi.

Un ospedale pubblico è una specie di falansterio socialista: si sta uno addosso all’altro, in quattro in una stanza, e praticamente non si dorme mai. Privacy zero. È pieno di rumori, sembra di stare in mezzo ad una piazza. Non ci sono orari per spegnere le luci la sera, i parenti in visita fanno cagnara, i vecchietti sordi tengono il televisore col volume a palla e la notte urlano come ossessi. I miei occasionali compagni di stanza provenivano dal proletariato romano: stupiti che leggessi tanti libri, hanno passato le giornate a guardare la TV. Mi sono fatto una cultura sui programmi televisivi più imbecilli. Grezzi, ma buoni di cuore, e servizievoli. Chissà perché, il convento passa i pasti, ma non l’acqua. Ovviamente, di wireless per collegarsi a internet neanche a parlarne. Si aspetta, e nel frattempo ci si annoia.

Il personale è variamente (mal)educato. Taluni sono simpatici, talaltri no. È anche scoppiata una rissa tra un inserviente un po' grezzo e un degente di settant’anni, ma atletico, che ha avuto la meglio. Nessuno si presenta, nessuno dà informazioni, nessuno, salvo i medici, dà del ‘lei’ ai malati. Si viene spesso chiamati col numero del letto, e nessuno sembra sospettare quanto questo sia spersonalizzate ed umiliante.
Insomma, nulla da dire sulla qualità delle cure, ma - se non vi sarò costretto - è l’ultima volta che metto piede in un ospedale pubblico. Non per fare il solito snob, ma è un posto davvero avvilente e disumano.

PS1: Sono potuto uscire, comunque, ed ho fatto alcune scoperte. Come il museo sulla Cassia dedicato a Venanzo Crocetti, scultore della generazione dei Manzù e dei Minguzzi. O la bella villa in stile barocchetto oggi residenza dell’ambasciatore kazakho. Mi è capitato anche di incontrare la ragazza di cui un milione di anni fa ero innamorato al punto da scriverle, col cuore in gola, ardenti poesie grondanti sentimento. Fortunatamente sono cresciuto e ho abbandonato deteriori sentimentalismi. Oggi vado al sodo: dalla poesia sono passato alla prosa più prosaica, per così dire... Lei abita lì vicino. Il leggiadro elfo dagli occhi di gatta che amai, è ora un appassito donnone rovinato da un matrimonio sbagliato e tre gravidanze: assomiglia ad una mozzarella andata a male. Niente ti dà la misura dello scorrere degli anni, quanto la tragedia del tempo che passa sul volto e sul corpo delle donne che un tempo hai amato. È anche per questo motivo che evito scrupolosamente di rivedere le mie ex, una volta che con loro è finita. Meglio ricordarle com’erano: giovani...

PS2: in ospedale ho letto l’ultimo libro di Camilleri, “L’età del dubbio”. Noioso e ripetitivo. Camilleri ormai fa il furbo, con storie sempre più semplici e meno credibili. In questa il Commissario Montalbano, ormai avviato alla sessantina, suscita d’amblè l’amore di una bella ufficialessa delle Capitanerie di Porto. Tentenna talmente tanto che la sua bella prima si allontana, poi muore.

L’ho scritto, Montalbano è il campione, l’eroe eponimo di tutti gli immaturi che amano a distanza. Da sempre impegnato in una relazione quasi esclusivamente telefonica con Livia, rotta poi la castità per farsi irretire da una gheparda per una one night stand (una volta si chiamavano sveltine, ma così è più chic), finalmente trova un amore vicino casa, e come si comporta? Prima fa di tutto per rovinarlo, con le sue mille seghe mentali, e poi per colpa di un suo errore nell’iniziare troppo presto una irruzione causa la morte della sua innamorata che si trova in mezzo a una sparatoria rimanendo uccisa. Direi che in questo errore c’è qualcosa di loscamente freudiano: coloro che amano a distanza, quando le cose minacciano di farsi serie e concrete, scappano o distruggono il loro amore. Ragione di più per stare alla larga da gente simile, ed andare in cerca di persone adulte e serie.

PS3: Ricordo Miriam Makeba, in una memorabile serata al festival del Jazz di Pescara. Che misera fine, morire dopo aver cantato in una piazza semivuota di un buco di paese irrimediabilmente camorrista, lei eroina della lotta all’apartheid. Cari napoletani, dagli africani avreste molto da imparare in quanto a dignità, rettitudine, forza d’animo, voglia di riscatto e tenacia nella lotta.


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Sugli amori a distanza e su Montalbano leggi anche:
L'amore ai tempi di ICQ
Io tifo per Livia
Cotte e mangiate

Sul mio sito:
Dell'amore e dell'ammirazione



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