Il mondo visto da una sedia a rotelle
C'è un gioco che fa vedere com'è il mondo visto da un cane. Assumere differenti punti di vista è sempre un esercizio utile. Io sono, da qualche tempo, su una sedia a rotelle. Messo così, suona drammatico, lo riconosco. In realtà la sedia a rotelle è un oggetto funzionale e meritorio, benché sinistro, che mi ha consentito di recuperare una ragionevole mobilità dopo l’operazione.
Ed è un eccellente punto di osservazione.
È un fatto da accettare senza giri di parole: per quanto provvisoriamente, io sono un handicappato. È sto vedendo com’è il mondo visto da uno che sta su una sedia a rotelle, magari per tutta la vita. L’esperienza è istruttiva.
Un handicappato è una persona fortemente dipendente. Ogni movimento che ai bipedi risulta facile e naturale, a lui costa fatica. Ogni ostacolo - un marciapiede, uno scalino, una piccola asperità del terreno - per lui può essere insormontabile.
Vorrei uscire per strada. Ma la scalinata dell’androne rappresenta già un bel problema. Una volta sul marciapiede, bastano una macchina posteggiata male o un motorino di traverso ad imprigionarmi. Questa bella città di Roma è già difficile per persone normalmente deambulanti. Una passeggiata qui è un esercizio faticoso, uno slalom tra buche, pali, deiezioni canine. Ma provate a perdere l’uso delle gambe per un po', e vedrete che quello che era difficile diventa impossibile.
Sono fortunato: ho una famiglia e amici solleciti. Ma, a parte che non posso abusarne, vorrei sapere come fanno coloro che sono soli.
E se questo è il mondo visto da un handicappato, come vede invece gli handicappati, il resto del mondo? Semplice, non li vede. Oggi sono stato in ospedale. Mi reggevo sulle stampelle, eppure due volte sono stato urtato e ho rischiato di cadere. Un tale, uno di quelli col cravattone e con l’auricolare del telefonino perennemente all’orecchio (e che ha rischiato seriamente di prendersi una stampellata in faccia), ha solo detto: ‘non l’ho vista’. Non mi ha visto, o non mi voleva vedere? Eppure persone deboli in un ospedale sono la norma. Ma i sani, distolgono lo sguardo. Non vogliono guardare, essere toccati dalla sofferenza. Potrebbe toccare anche a loro, un giorno, ma perché pensarci? Meglio godersela, finché dura, con lieta incoscienza. Chi è malato è uno scomodo memento, non invita alla solidarietà, ma all’oblio. Meglio girare lo sguardo da un’altra parte.
Sto sperimentando quanto dipendenti e fragili diventano le persone, per poco che siano minorate. Tutto ciò è penoso se intorno non c’è un clima di solidarietà, comprensione e affettuosa sollecitudine che renda il chiedere e il dipendere più facile e meno umiliante.
Ecco allora, il mio invito: non voltatevi dall’altra parte. Imparate a guardare in faccia la sofferenza, a esercitare le trascurate virtù della compassione (che etimologicamente vuol dire “soffrire insieme”), della solidarietà e della simpatia. Tendete la mano, cedete il posto in autobus, telefonate a un amico che sta male. Un giorno potreste averne bisogno anche voi.
(PS: La mia somiglianza con Pietro Gambadilegno si fa vieppiù impressionante...!!! )
Ed è un eccellente punto di osservazione.
È un fatto da accettare senza giri di parole: per quanto provvisoriamente, io sono un handicappato. È sto vedendo com’è il mondo visto da uno che sta su una sedia a rotelle, magari per tutta la vita. L’esperienza è istruttiva.
Un handicappato è una persona fortemente dipendente. Ogni movimento che ai bipedi risulta facile e naturale, a lui costa fatica. Ogni ostacolo - un marciapiede, uno scalino, una piccola asperità del terreno - per lui può essere insormontabile.
Vorrei uscire per strada. Ma la scalinata dell’androne rappresenta già un bel problema. Una volta sul marciapiede, bastano una macchina posteggiata male o un motorino di traverso ad imprigionarmi. Questa bella città di Roma è già difficile per persone normalmente deambulanti. Una passeggiata qui è un esercizio faticoso, uno slalom tra buche, pali, deiezioni canine. Ma provate a perdere l’uso delle gambe per un po', e vedrete che quello che era difficile diventa impossibile.
Sono fortunato: ho una famiglia e amici solleciti. Ma, a parte che non posso abusarne, vorrei sapere come fanno coloro che sono soli.
E se questo è il mondo visto da un handicappato, come vede invece gli handicappati, il resto del mondo? Semplice, non li vede. Oggi sono stato in ospedale. Mi reggevo sulle stampelle, eppure due volte sono stato urtato e ho rischiato di cadere. Un tale, uno di quelli col cravattone e con l’auricolare del telefonino perennemente all’orecchio (e che ha rischiato seriamente di prendersi una stampellata in faccia), ha solo detto: ‘non l’ho vista’. Non mi ha visto, o non mi voleva vedere? Eppure persone deboli in un ospedale sono la norma. Ma i sani, distolgono lo sguardo. Non vogliono guardare, essere toccati dalla sofferenza. Potrebbe toccare anche a loro, un giorno, ma perché pensarci? Meglio godersela, finché dura, con lieta incoscienza. Chi è malato è uno scomodo memento, non invita alla solidarietà, ma all’oblio. Meglio girare lo sguardo da un’altra parte.
Sto sperimentando quanto dipendenti e fragili diventano le persone, per poco che siano minorate. Tutto ciò è penoso se intorno non c’è un clima di solidarietà, comprensione e affettuosa sollecitudine che renda il chiedere e il dipendere più facile e meno umiliante.
Ecco allora, il mio invito: non voltatevi dall’altra parte. Imparate a guardare in faccia la sofferenza, a esercitare le trascurate virtù della compassione (che etimologicamente vuol dire “soffrire insieme”), della solidarietà e della simpatia. Tendete la mano, cedete il posto in autobus, telefonate a un amico che sta male. Un giorno potreste averne bisogno anche voi.
(PS: La mia somiglianza con Pietro Gambadilegno si fa vieppiù impressionante...!!! )
Caro Dario, innanzitutto auguri per un pronto abbandono di stampelle e sedia a rotelle.
RispondiEliminaPer quanto riguarda il "tipo col cravattone e l'auricolare del telefonino", il menefreghismo noncurante e la volontaria ignoranza nei confronti di chi soffre, mi tornano alla mente i primi quattro versi del "De rerum natura" di Lucrezio, che sono, ahimè, sempre attuali, specialmente in contesti metropolitani privi dei più elementari fondamenti cristiani che tu hai richiamato:
"Suave mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est."
Ieri a Roma il cavallo di una botticella è scivolato, si è azzoppato e lo hanno abbattuto...
RispondiEliminaOnore ai compagni caduti...