Barbagli ed abbagli
Una banda di dieci borgatari che nella zona del Trullo a Roma picchiavano e terrorizzavano gli immigrati è stata arrestata dai Carabinieri. Tutti sono stati accusati di rapina aggravata, lesioni, minacce con l'aggravante della discriminazione e dell'odio razziale. Strano, perchè in Italia, ufficialmente, il razzismo non esiste. Lo dicono in TV opinionisti e noti studiosi, dati alla mano.
C’è una vignetta delle Sturmtruppen che mi torna spesso in mente, in queste occasioni. Il Sergente cattivo va a rapporto dal Capitano. “Ci sono nuofe vittime dell’epidemia di coleren, Herr Capitanen”. Il Capitano risponde che per ordine dello stato maggiore non di epidemia si deve parlare, ma di ‘singoli casi isolati’. “Sissignoren”, ribatte il Sergente, “oggi ci sono mille nuofi singoli casi isolaten”.
La morale è chiara: persino ai numeri si può far dire ciò che si vuole, è tutta questione di definizioni ed interpretazioni.
In Italia il razzismo è in crescita. Non un fatto di massa, non siamo ancora ai pogrom o alla Notte dei Cristalli, certo, ma gli episodi di gratuita intolleranza e di violenza stanno diventando sempre più frequenti. È dunque lecito essere preoccupati. O no?
No, assolutamente, risponde il mefistofelico Maurizio Belpietro, dalle colonne del berlusconiano Panorama e dalle molte trasmissioni televisive che lo hanno ospitato insieme a una claque di ragazzi visibilmente di estrema destra. “L’Italia non è affatto un paese razzista, semmai un paese spaventato”, proclama il nostro. E notate l’abilità nel proporsi come il campione del buon nome dell’Italia: nessuno ha mai detto, in realtà, che l’Italia è nel suo insieme, tutta, un paese razzista….
Per sostenere la sua tesi, Belpietro chiama in appoggio un insospettabile alleato: Marzio Barbagli, sociologo bolognese, autore del recente saggio su Immigrazione e sicurezza in Italia, editore Il Mulino.
Barbagli, sottolinea Belpietro, è “di sinistra” (bella scoperta!: gli accademici stanno alla sinistra come il culo alla camicia), quindi a maggior ragione credibile, perché “lui stesso si rifiutò di credere che i processi migratori avessero una qualche influenza sui reati commessi in Italia. La sua formazione politica gli impediva di leggere i dati che aveva sotto gli occhi”. Insomma, Barbagli è di sinistra, ma ha visto la luce, il prosciutto dell’ideologia gli è caduto dagli occhi, e non si sente minimamente in imbarazzo in compagnia di Belpietro. Ecco allora alcuni preziosi dati della sua ricerca: “nel 2007, su circa 9.300 persone denunciate per furto in appartamento, quasi il 53 per cento era straniero e di poco inferiore era la percentuale di immigrati arrestata per una rapina in casa; per quanto riguarda il borseggio si sale addirittura al 68 per cento”.
I lettori di questo sito conoscono la mia opinione: fosse per me gli scienziati sociali, e segnatamente i sociologi, questi incessanti riscopritori dell'acqua calda, andrebbero avviati al lavoro coatto nelle miniere di sale. Che qualcuno guadagni da vivere certificando l'ovvio, mi sembra un’offesa a chi lavora davvero.
Ebbene, che un detenuto su due sia straniero è cosa cognita, basta leggersi i dati sulla popolazione carceraria del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Ed è persino ovvio che la maggior parte dei delitti di grande allarme sociale, come reati contro il patrimonio, traffico di droga, etc., siano commessi da persone povere e in basso nella scala sociale. Dal momento che gli immigrati fanno percentualmente parte di queste categorie molto più degli altri, hanno più probabilità di commettere delitti di questo tipo, e assai meno di essere tra gli autori di crimini tipici dei ‘white collars’.
Insomma, la scoperta che gli immigrati sono pesantemente coinvolti nei fenomeni delittuosi è rivoluzionaria più o meno quanto trovare che ci sono molti siciliani coinvolti nella mafia. Ma per l’esimio sociologo questa è una grande novità, dalla quale derivano alcuni imbarazzanti corollari.
Intervistato da Bianca Stancanelli, Barbagli dice: “Sia la definizione di razzismo sia quella di xenofobia per gli episodi accaduti in questi mesi mi sembrano inadeguate… Sono fatti molto diversi, atti di ostilità, a volte molto gravi, nei confronti di stranieri, ma non fondati sulla pretesa di una superiorità razziale o sul rifiuto di tutto ciò che viene dall’estero, come nella xenofobia. Gli italiani non sono spaventati dagli immigrati, ma sono preoccupati da due aspetti: la criminalità degli stranieri e il loro essere competitori nel sistema del welfare, dall’accoglienza nel pronto soccorso degli ospedali all’inserimento dei figli all’asilo o a scuola”.
Semplificando, il ragionamento che tanto entusiasma Belpietro - che lo ripete paro paro in ogni occasione possibile - fila così: gli italiani non sono affatto razzisti, sono gli stranieri a portare dei problemi. Una logica che ricorda tanto quella famosa gag in cui i comici Paolantoni, Covatta e Sarcinelli, inscenando una tribuna politica della Lega, concludevano immancabilmente con lo slogan: “Non siamo noi ad essere razzisti… sono loro che sono napoletani!”.
A parte la raffinatezza gesuitica del distinguo (gli italiani “non sono spaventati, ma preoccupati”), la definizione di “xenofobia” che dà Barbagli – è da manuale (cfr: De Mauro Paravia: "avversione indiscriminata verso tutto quello che viene dall’estero") – ma è anche talmente ristretta da risultare praticamente inservibile. Messa così, nessuno è veramente razzista.
La xenofobia non è - come pretende il nostro professore - una posizione intellettuale che trascende poi in azione violenta. La storia mostra che è semmai il contrario: sono l’odio viscerale per il diverso, la volontà di sopraffazione del forte sul debole, che vengono poi sistematizzati in costruzioni ideologiche, allo scopo di trovare in essi una qualche giustificazione.
Ogni atto di violenza, di sopraffazione, di intolleranza nei confronti di persone diverse, per razza, religione, orientamento sessuale, è ipso facto - a prescindere da quelle che possono essere le (confuse) motivazioni ideologiche degli attori - razzismo.
L’ho già scritto: suddividere gli episodi di violenza, classificarli, è un modo per depotenziarne la condanna e per pavimentare la via delle giustificazioni. Certi distinguo sono pelosi. La violenza non è grave per le motivazioni personali di chi vi si abbandona, ma per i danni che essa produce in chi la subisce e nella società. Cosa cambia, per il povero cinese di Roma, sapere che chi gli ha rotto la faccia non lo ha fatto in base a una “pretesa ideologicamente fondata di superiorità razziale”? E poi, se al suo posto ci fosse stato uno svedese alto e biondo, davvero sarebbe stato trattato allo stesso modo?
Soprattutto, non basta enunciare, come fa Barbagli, che gli italiani siano ‘preoccupati’ dalla criminalità e dalla competizione per il benessere. Occorre anche discutere della fondatezza di queste preoccupazioni, e della loro origine. Perché gli italiani vedono gli stranieri come una minaccia? O, per essere più esatti, perché agli italiani gli stranieri vengono additati come una minaccia?
Come ho scritto sopra, per quanto riguarda il primo issue, l’identificazione tra criminali e immigrati, a dispetto del saggio di Barbagli, è del tutto arbitraria. Quello che i dati dicono, a leggerli tutti e bene, è:
Per quanto riguarda la competizione per il benessere, invece, il timore è più fondato. Come ho già scritto, l’immigrato è povero, alla stessa stregua del povero italiano. A differenza di questo, però, è ben più dinamico. Ha visto un po' di mondo, ha reagito alle sue difficoltà muovendosi, è disposto a faticare parecchio. Non di rado, fa presto il salto ad imprenditore. Sì, è un povero competitivo, non rassegnato. Ma tutto ciò è una colpa, o non piuttosto un merito, degli immigrati?
Identificandoli come fonte delle preoccupazioni degli italiani, Barbagli sposta sugli immigrati la responsabilità di problemi che non dipendono, o che dipendono solo in parte, da loro. Il fatto che gli stranieri siano vissuti e presentati come un pericolo, sia che delinquano, sia che guadagnino onestamente il pane, non significa forse far di loro un comodo capro espiatorio? E non è proprio questo ciò che chiamiamo razzismo?
Il razzismo in Italia c’è, eccome. Non solo nei comportamenti individuali e di gruppo, ma nell’atteggiamento stesso della società e della politica, a partire da un premier che definisce “abbronzato” il primo Presidente USA di colore.
Ormai nel nostro paese albergano stabilmente milioni di persone - che contribuiscono alla produzione del 10% del PIL, che assicurano servizi sociali indispensabili, che assicurano la sostenibilità della nostra spesa pensionistica, che forniscono alle PMI la forza lavoro a buon mercato, unica alternativa alla delocalizzazione all’estero - ma continuiamo a considerarli ospiti in transito, negando loro ogni prospettiva di integrazione. Il loro contributo positivo alla vita nazionale è di gran lunga superiore a quello negativo, ma nessun sociologo si scomoda a sottolinearlo.
Come illustra Giovanna Zincone in “Familismo legale”, la recente legge sulla cittadinanza ne ha reso l’acquisizione più facile ai discendenti di italiani - per ‘ius sanguinis’ - e più difficile agli stranieri residenti da anni in Italia. Ebbene, l’aver adottato un criterio etnico per distinguere chi è italiano da chi non lo è, non è forse razzismo?
È un fatto che si è creata in seno alla nostra società una categoria di meteci, che vivono in un limbo fatto di molti doveri e pochi diritti, tenuti sotto la perpetua minaccia dell’esclusione e dell’espulsione. Occorrerebbero politiche generose di inclusione, volte a riconoscere agli immigrati lo status di cittadini a pieno titolo. Non solo concedendo la cittadinanza, ma mettendosi in mente che un italiano non è necessariamente bianco e cattolico. È chiaro che a questo non si vuole arrivare, almeno da una parte politica, e che si preferisce soffiare sul fuoco dell’intolleranza, perpetuando l’equazione immigrati=criminali.
Passi per Belpietro, ma che uno studioso accreditato come Barbagli si presti ad offrire bagaglio ideologico e parascientifico a questo progetto è davvero indegno.
L’epidemia, come nelle strisce delle Sturmtruppen, è già tra noi. Sono i sottili distinguo, i sofismi di personaggi alla Barbagli, che impediscono di vedere il problema ed affrontarlo prima che esso diventi irreparabile.
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Grazie al cielo c'è Napolitano:
Il presidente della Repubblica accoglie i 'nuovi cttadini' al Quirinale
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Sul Corriere il dibattito:
Razzismo, emergenza o no?
C’è una vignetta delle Sturmtruppen che mi torna spesso in mente, in queste occasioni. Il Sergente cattivo va a rapporto dal Capitano. “Ci sono nuofe vittime dell’epidemia di coleren, Herr Capitanen”. Il Capitano risponde che per ordine dello stato maggiore non di epidemia si deve parlare, ma di ‘singoli casi isolati’. “Sissignoren”, ribatte il Sergente, “oggi ci sono mille nuofi singoli casi isolaten”.
La morale è chiara: persino ai numeri si può far dire ciò che si vuole, è tutta questione di definizioni ed interpretazioni.
In Italia il razzismo è in crescita. Non un fatto di massa, non siamo ancora ai pogrom o alla Notte dei Cristalli, certo, ma gli episodi di gratuita intolleranza e di violenza stanno diventando sempre più frequenti. È dunque lecito essere preoccupati. O no?
No, assolutamente, risponde il mefistofelico Maurizio Belpietro, dalle colonne del berlusconiano Panorama e dalle molte trasmissioni televisive che lo hanno ospitato insieme a una claque di ragazzi visibilmente di estrema destra. “L’Italia non è affatto un paese razzista, semmai un paese spaventato”, proclama il nostro. E notate l’abilità nel proporsi come il campione del buon nome dell’Italia: nessuno ha mai detto, in realtà, che l’Italia è nel suo insieme, tutta, un paese razzista….
Per sostenere la sua tesi, Belpietro chiama in appoggio un insospettabile alleato: Marzio Barbagli, sociologo bolognese, autore del recente saggio su Immigrazione e sicurezza in Italia, editore Il Mulino.
Barbagli, sottolinea Belpietro, è “di sinistra” (bella scoperta!: gli accademici stanno alla sinistra come il culo alla camicia), quindi a maggior ragione credibile, perché “lui stesso si rifiutò di credere che i processi migratori avessero una qualche influenza sui reati commessi in Italia. La sua formazione politica gli impediva di leggere i dati che aveva sotto gli occhi”. Insomma, Barbagli è di sinistra, ma ha visto la luce, il prosciutto dell’ideologia gli è caduto dagli occhi, e non si sente minimamente in imbarazzo in compagnia di Belpietro. Ecco allora alcuni preziosi dati della sua ricerca: “nel 2007, su circa 9.300 persone denunciate per furto in appartamento, quasi il 53 per cento era straniero e di poco inferiore era la percentuale di immigrati arrestata per una rapina in casa; per quanto riguarda il borseggio si sale addirittura al 68 per cento”.
I lettori di questo sito conoscono la mia opinione: fosse per me gli scienziati sociali, e segnatamente i sociologi, questi incessanti riscopritori dell'acqua calda, andrebbero avviati al lavoro coatto nelle miniere di sale. Che qualcuno guadagni da vivere certificando l'ovvio, mi sembra un’offesa a chi lavora davvero.
Ebbene, che un detenuto su due sia straniero è cosa cognita, basta leggersi i dati sulla popolazione carceraria del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Ed è persino ovvio che la maggior parte dei delitti di grande allarme sociale, come reati contro il patrimonio, traffico di droga, etc., siano commessi da persone povere e in basso nella scala sociale. Dal momento che gli immigrati fanno percentualmente parte di queste categorie molto più degli altri, hanno più probabilità di commettere delitti di questo tipo, e assai meno di essere tra gli autori di crimini tipici dei ‘white collars’.
Insomma, la scoperta che gli immigrati sono pesantemente coinvolti nei fenomeni delittuosi è rivoluzionaria più o meno quanto trovare che ci sono molti siciliani coinvolti nella mafia. Ma per l’esimio sociologo questa è una grande novità, dalla quale derivano alcuni imbarazzanti corollari.
Intervistato da Bianca Stancanelli, Barbagli dice: “Sia la definizione di razzismo sia quella di xenofobia per gli episodi accaduti in questi mesi mi sembrano inadeguate… Sono fatti molto diversi, atti di ostilità, a volte molto gravi, nei confronti di stranieri, ma non fondati sulla pretesa di una superiorità razziale o sul rifiuto di tutto ciò che viene dall’estero, come nella xenofobia. Gli italiani non sono spaventati dagli immigrati, ma sono preoccupati da due aspetti: la criminalità degli stranieri e il loro essere competitori nel sistema del welfare, dall’accoglienza nel pronto soccorso degli ospedali all’inserimento dei figli all’asilo o a scuola”.
Semplificando, il ragionamento che tanto entusiasma Belpietro - che lo ripete paro paro in ogni occasione possibile - fila così: gli italiani non sono affatto razzisti, sono gli stranieri a portare dei problemi. Una logica che ricorda tanto quella famosa gag in cui i comici Paolantoni, Covatta e Sarcinelli, inscenando una tribuna politica della Lega, concludevano immancabilmente con lo slogan: “Non siamo noi ad essere razzisti… sono loro che sono napoletani!”.
A parte la raffinatezza gesuitica del distinguo (gli italiani “non sono spaventati, ma preoccupati”), la definizione di “xenofobia” che dà Barbagli – è da manuale (cfr: De Mauro Paravia: "avversione indiscriminata verso tutto quello che viene dall’estero") – ma è anche talmente ristretta da risultare praticamente inservibile. Messa così, nessuno è veramente razzista.
La xenofobia non è - come pretende il nostro professore - una posizione intellettuale che trascende poi in azione violenta. La storia mostra che è semmai il contrario: sono l’odio viscerale per il diverso, la volontà di sopraffazione del forte sul debole, che vengono poi sistematizzati in costruzioni ideologiche, allo scopo di trovare in essi una qualche giustificazione.
Ogni atto di violenza, di sopraffazione, di intolleranza nei confronti di persone diverse, per razza, religione, orientamento sessuale, è ipso facto - a prescindere da quelle che possono essere le (confuse) motivazioni ideologiche degli attori - razzismo.
L’ho già scritto: suddividere gli episodi di violenza, classificarli, è un modo per depotenziarne la condanna e per pavimentare la via delle giustificazioni. Certi distinguo sono pelosi. La violenza non è grave per le motivazioni personali di chi vi si abbandona, ma per i danni che essa produce in chi la subisce e nella società. Cosa cambia, per il povero cinese di Roma, sapere che chi gli ha rotto la faccia non lo ha fatto in base a una “pretesa ideologicamente fondata di superiorità razziale”? E poi, se al suo posto ci fosse stato uno svedese alto e biondo, davvero sarebbe stato trattato allo stesso modo?
Soprattutto, non basta enunciare, come fa Barbagli, che gli italiani siano ‘preoccupati’ dalla criminalità e dalla competizione per il benessere. Occorre anche discutere della fondatezza di queste preoccupazioni, e della loro origine. Perché gli italiani vedono gli stranieri come una minaccia? O, per essere più esatti, perché agli italiani gli stranieri vengono additati come una minaccia?
Come ho scritto sopra, per quanto riguarda il primo issue, l’identificazione tra criminali e immigrati, a dispetto del saggio di Barbagli, è del tutto arbitraria. Quello che i dati dicono, a leggerli tutti e bene, è:
- che la metà dei delitti in Italia viene ancora commessa da nostri compatrioti;
- che il totale dei reati denunciati è diminuito.
Per quanto riguarda la competizione per il benessere, invece, il timore è più fondato. Come ho già scritto, l’immigrato è povero, alla stessa stregua del povero italiano. A differenza di questo, però, è ben più dinamico. Ha visto un po' di mondo, ha reagito alle sue difficoltà muovendosi, è disposto a faticare parecchio. Non di rado, fa presto il salto ad imprenditore. Sì, è un povero competitivo, non rassegnato. Ma tutto ciò è una colpa, o non piuttosto un merito, degli immigrati?
Identificandoli come fonte delle preoccupazioni degli italiani, Barbagli sposta sugli immigrati la responsabilità di problemi che non dipendono, o che dipendono solo in parte, da loro. Il fatto che gli stranieri siano vissuti e presentati come un pericolo, sia che delinquano, sia che guadagnino onestamente il pane, non significa forse far di loro un comodo capro espiatorio? E non è proprio questo ciò che chiamiamo razzismo?
Il razzismo in Italia c’è, eccome. Non solo nei comportamenti individuali e di gruppo, ma nell’atteggiamento stesso della società e della politica, a partire da un premier che definisce “abbronzato” il primo Presidente USA di colore.
Ormai nel nostro paese albergano stabilmente milioni di persone - che contribuiscono alla produzione del 10% del PIL, che assicurano servizi sociali indispensabili, che assicurano la sostenibilità della nostra spesa pensionistica, che forniscono alle PMI la forza lavoro a buon mercato, unica alternativa alla delocalizzazione all’estero - ma continuiamo a considerarli ospiti in transito, negando loro ogni prospettiva di integrazione. Il loro contributo positivo alla vita nazionale è di gran lunga superiore a quello negativo, ma nessun sociologo si scomoda a sottolinearlo.
Come illustra Giovanna Zincone in “Familismo legale”, la recente legge sulla cittadinanza ne ha reso l’acquisizione più facile ai discendenti di italiani - per ‘ius sanguinis’ - e più difficile agli stranieri residenti da anni in Italia. Ebbene, l’aver adottato un criterio etnico per distinguere chi è italiano da chi non lo è, non è forse razzismo?
È un fatto che si è creata in seno alla nostra società una categoria di meteci, che vivono in un limbo fatto di molti doveri e pochi diritti, tenuti sotto la perpetua minaccia dell’esclusione e dell’espulsione. Occorrerebbero politiche generose di inclusione, volte a riconoscere agli immigrati lo status di cittadini a pieno titolo. Non solo concedendo la cittadinanza, ma mettendosi in mente che un italiano non è necessariamente bianco e cattolico. È chiaro che a questo non si vuole arrivare, almeno da una parte politica, e che si preferisce soffiare sul fuoco dell’intolleranza, perpetuando l’equazione immigrati=criminali.
Passi per Belpietro, ma che uno studioso accreditato come Barbagli si presti ad offrire bagaglio ideologico e parascientifico a questo progetto è davvero indegno.
L’epidemia, come nelle strisce delle Sturmtruppen, è già tra noi. Sono i sottili distinguo, i sofismi di personaggi alla Barbagli, che impediscono di vedere il problema ed affrontarlo prima che esso diventi irreparabile.
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Grazie al cielo c'è Napolitano:
Il presidente della Repubblica accoglie i 'nuovi cttadini' al Quirinale
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Sul Corriere il dibattito:
Razzismo, emergenza o no?
Grazie di quanto hai scritto. Italiani continuano a pensare a stranieri come a minacia. Ma la magior parte di noi lavora onestamente, paga tasse e contibuti. E non tira buona aria per noi.
RispondiEliminaCiao
Said
Nell’intervista rilasciata cinque giorni fa da Marzio Barbagli a Francesco Alberti per il Corriere, Barbagli racconta di una formidabile lotta tra i suoi «schematismi» culturali e i dati della realtà che lo hanno costretto, sul tema della criminalità connessa all’immigrazione, a rivedere drasticamente le proprie «ipotesi di partenza». «Non volevo vedere », confessa Barbagli, «c’era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull’incidenza dell’immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l’ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull’aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Il racconto di Barbagli riassume con grande pathos espressivo il senso di un percorso sofferto: «ho fatto il possibile per ingannare me stesso»; «era come se avessi un blocco mentale ». Fino alla degna conclusione : «sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore e l’uomo di sinistra. Ora sono un ricercatore. E nient’altro.
RispondiEliminaPersino un fondo di Pigi Battista plaude alla “con cristallina onestà intellettuale” di Barbagli. Ma come, uno confessa di avere, per tutta la vita, lasciato prevalere le sue convinzioni politiche sulla sua missione intellettuale – cioè in sostanza di aver falsificato il suo lavoro scientifico - e sarebbe un “uomo onesto”? Non c’è che dire, i baroni dell’Accademia, come i gatti, cadono sempre in piedi.
Vengo citato in questo blog "Cattive Notizie" che fa considerazioni molto interessanti sull'ambiguo personaggio Barbagli.
RispondiElimina... per dire, è come se un atleta, dopo aver confessato di essersi dopato per tutta la vita, pretendesse di conservare le medaglie guadagnate... no, caro Barbagli, lei ha barato, ha confessato che tutta la sua rierca è stata ideologicamente condizionata. Ne tragga le conclusioni e si levi dalle balle...
RispondiEliminaE questa è l’ulteriore riprova che quanto dice il cosiddetto prof. Barbagli non ha alcuna validità scientifica:
RispondiEliminaTra immigrati e italiani
stesso tasso di criminalità
I dati ufficiali dimostrano che l'80% delle denunce a carico di stranieri riguarda irregolari;
ma anche tra questi, in quattro casi su 5 il reato contestato è l'assenza del permesso di soggiorno
(28 gennaio 2010)
ROMA - Sono i numeri a dire che gli immigrati non delinquono più degli italiani. Secondo i dati dell'Istat, il tasso di criminalità degli immigrati regolari, in Italia, è "solo leggermente più alto" di quello degli italiani (tra l'1,23% e l'1,4%, contro lo 0,75%) ed è addirittura inferiore tra le persone oltre i 40 anni. Di fatto, i dati sono "equiparabili". E' vero invece la stragrande maggioranza dei reati commessi da stranieri in Italia è opera di immigrati irregolari.
Parlano ancora le cifre ufficiali, secondo le quali il 70-80% degli stranieri denunciati sono irregolari. Anche qui, però, i dati sono da leggere con attenzione perché, sul totale delle denunce, l'87% riguarda proprio la mera condizione di clandestinità: il reato commesso da 4 stranieri su 5 denunciati riguarda insomma l'essere stati sorpresi in Italia senza permesso di soggiorno e dunque la violazione delle leggi sull'immigrazione.
In generale, dicono le statistiche, non esiste un legame fra l'aumento degli immigrati regolari e l'aumento dei reati in Italia: tra il 2001 e il 2005, ad esempio, mentre gli stranieri sono aumentati di oltre il 100%, le denunce nei loro confronti sono cresciute del 45,9%.
Al di là delle polemiche politiche, sono comunque nettamente superiori gli aspetti positivi dell'immigrazione. In Italia gli immigrati regolari, secondo i più recenti rapporti di Caritas Migrantes e Ismu, sono oltre quattro milioni e mezzo, il 7,2% della popolazione, una percentuale che supera per la prima volta la media europea (6,2%). Dal 1998 al 2008, la crescita è stata del 246% e se il trend resterà invariato, come prevede l'Istat, nel 2050 gli italiani di origine straniera saranno oltre 12 milioni.
I lavoratori stranieri sono circa due milioni e producono il 10% del Pil nazionale. I vantaggi dello Stato sono visibili da altri numeri: gli immigrati versano ogni all'Inps sette miliardi di euro e pagano al Fisco una cifra che supera i 3,2 miliardi di euro. Inoltre, ogni cento neonati in Italia, ormai più del 12% ha un almeno un genitore straniero.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.
RispondiEliminaPoi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Bertold Brecht