Come la moglie di Lot

Questo è il Palazzo di Giustizia di Roma. Oggi ospita la Corte di Cassazione. Passo davanti a questo edificio diverse volte al giorno, perché è davanti al mio ufficio. Istintivamente lo detesto. Pomposo, ridondante, goffo, costoso, pretenzioso, aulico, disfunzionale, pachidermico, pericolante, esso è la perfetta metafora della Giustizia Italiana. Se un monumento ha da essere verosimigliante al suo modello, allora nessuno è più azzeccato di questo.

Rileggendomi la sua storia, scopro che è praticamente contemporaneo della Torre Eiffel (1889): incredibile. Proprio mentre in riva alla Senna l’ingegner Eiffel progettava la sua ardita torre che sfidando il cielo preconizza l’età del volo, in riva al Tevere il Calderini costruiva un croccante fatto di quadrighe e di statue in toga...

L’uno guardava al futuro, l’altro al passato.

Credo che il passatismo sia la grande malattia mentale dell’Italia. Lo è a tal punto che persino i seguaci di un movimento che avrebbe dovuto essere ai suoi antipodi, il Futurismo, finirono per appattarsi con il restauratore dei labari e dei fasci.
In politica non si fa che discutere del passato, se Craxi fosse un delinquente o uno statista (io opto per la prima), anziché progettare il futuro.

Anche a livello individuale esistono numerosi e patologici esempi di persone che camminano con la faccia voltata all’indietro, vivendo di ricordi e tramutando tutto ciò che è parte del loro passato in una reliquia: ho conosciuto un uomo che ha gelosamente conservato per quarant’anni le bottiglie della sua festa di laurea; una signora che proprio non poteva fare a meno di elencare ai suoi fidanzati i suoi amori passati; gente che non butta via nulla fino a trasformare la propria casa in un magazzino. E si potrebbe continuare con esempi sempre più malati, come quei tali che per eccesso di devozione filiale conservano in casa il cadavere mummificato dei genitori.
Per tutti costoro non appare eccessiva la punizione che Dio riservò alla moglie di Lot, trasformata in statua di sale per essersi voltata indietro a guardare la distruzione di Sodoma (Genesi, 19,26).

Che abbia avuto antenati gloriosi, genitori incombenti, o un’infanzia eccessivamente protetta, il passatista cerca sempre di tornare a una sua mitica età dell’oro, in cui è stato - almeno crede - assolutamente e perfettamente felice. Il suo vivere non è che un rivivere, un ripetere, un ritrovare, un riassaporare. Tra sé ed il mondo mette il diaframma dei suoi ricordi, e l'ingombrante bagaglio delle sue esperienze: il già visto, già fatto, già detto. Il suo cammino, alla fine, è sempre circolare, un andare che è sempre un 'ritornare'. Egli parla per paragoni: le situazioni già vissute sono il metro su cui giudicare le nuove. Nelle persone che incontra non cerca la novità, ma la somiglianza rassicurante con chi già conosce. Una sua tipica frase è: “mi ricordi qualcuno”. Non rammenta: commemora.

In effetti, il passatismo è una manifestazione di profonda insicurezza. Colui che guarda al passato teme il futuro, e quindi lo nega. Nulla più di questa archeologica città di Roma simboleggia come il passato possa essere un'ipoteca sul futuro.

Quanto più conosco i passatisti, tanto più li detesto. Ho sviluppato una profonda antipatia per gli storici, gli archeologi, i diaristi, i memorialisti, gli archivisti, i museografi, i collezionisti, gli antiquari, i conservatori, i restauratori e gli imbalsamatori, per tutti coloro, cioè, che non fanno altro che rivangare e preservare il passato. Reputo fortunati quei popoli che non hanno storia né tradizioni cui ispirarsi, e possono tranquillamente scavare metropolitane sotto le loro città senza trovare vecchie pietre né catacombe.

Forse più che in Arno, gli italiani dovrebbero bagnarsi nel Lete e nell’Eunoè, i fiumi danteschi dell’Oblio e del Rinnovamento. Per cominciare daccapo una nuova storia, scrivendo su pagine bianche.



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