Sulle spalle di Ascanio
Tra le proposte di Veltroni - capo in pectore del futuro (!) Partito Democratico - c’è quella di abbassare l’età per essere ammessi a votare, da 18 a 16 anni, come pare si stia facendo in Austria.
Si vorrebbe porre in tal modo un rimedio alla straordinaria gerontocrazia italiana, che fa della nostra classe politica la più vecchia d’Europa, e il nostro un paese in drammatico declino demografico, visto che ogni risorsa va alle pensioni e al debito, mentre di politiche per la famiglia ed il futuro non si parla.
Il rimedio è virtuale, un po' come quelli che Veltroni ha applicato finora ai problemi della Capitale, che infatti continua ad essere sporca, caotica ed inquinata, solo che adesso costituisce un “Modello Roma”. Modello di cosa e per chi, non si sa bene.
Forse che i ventenni, trentenni, quarantenni già oggi non votano? Eppure i giovani in politica non contano. Lo stesso Veltroni scende in campo a un’età in cui Tony Blair si è ritirato.
Forse che le donne in Italia non votano? Sono la buona metà della popolazione, eppure la nostra rappresentanza politica femminile è la più striminzita d’Europa.
Il problema centrale del nostro paese, che gli impedisce di essere una democrazia matura e quindi un sistema competitivo ed efficiente non è il voto in sé, ma la traduzione del voto in peso politico.
In modo tipico della sinistra italiana, l’idea di Veltroni risolve il tema della partecipazione in un diritto assoluto, ed il voto a un mero strumento di “espressione”, quando esso è soprattutto una modalità di “decisione”.
L’idea che la democrazia consista essenzialmente nel “dire la propria” è perniciosamente molto diffusa in Italia. Marco Pannella, con i suoi molti e quasi tutti irrilevanti referendum, ne è stato il sommo campione.
La democrazia invece consiste nello scegliere e decidere, in modo consapevole e responsabile. Il decisore deve cioè conoscere le alternative possibili, ed essere disposto a pagare di tasca propria i costi e le conseguenze delle proprie scelte.
Nelle democrazie mature il voto non è un diritto assoluto, ma relativo, tanto che può persino essere subordinato, come in Inghilterra, al pagamento di una tassa (poll tax).
Tale diritto costituisce la contropartita di precisi doveri civici, primo tra tutti quello alla contribuzione fiscale. Si vota, insomma “col portafoglio” per difendere concreti interessi materiali: sembra prosaico, ma è così. Il motto delle grandi democrazie liberali, e non a caso la parola d'ordine della Rivoluzione Americana, è "no taxation without representation".
Ora, in Italia, quello che è appunto saltato, e che ha fatto impazzire tutto il meccanismo, è proprio il nesso tra “taxation" e "representation”, la naturale endiadi "cittadino-contribuente". L'anomalia italiana sta nel fatto che chi decide la spesa non ne paga le conseguenze, grazie ad un meccanismo di sostanziale irresponsabilità fiscale.
Facciamo un passo indietro: i parlamenti nacquero come assemblee rappresentativa di proprietari terrieri, di coloro che avevano beni al sole. Essi avevano la funzione di autorizzare il sovrano alla spesa pubblica, e quindi alla relativa tassazione, che della spesa è il corollario indispensabile. La prima, fondamentale divisione dei poteri, che è il concetto su cui si basa la democrazia moderna, è questa: tra poteri di impegno e ordinazione della spesa, e poteri di imposizione fiscale (entrate). Chi paga controlla chi spende, e per questa via si realizza un equilibrio di bilancio.
In Italia, invece, si è invertito il gioco delle parti: chi ordina la spesa non ne risponde a coloro che devono poi finanziarla. Perché ciò avviene?
Perché il Parlamento Italiano, forte di un potere legislativo praticamente assoluto, può emanare leggi di spesa, lasciando al governo l’onere della loro copertura e della quadratura dei conti.
Ora, la spesa pubblica è uno splendido strumento per l’acquisto del consenso (pork barrel), di cui i parlamentari hanno disperatamente bisogno. Per espandere la spesa, però, occorre imporre nuove tasse: queste invece non portano consenso. La soluzione italiana è stata quella di indebitarsi. Il debito può essere finanziato anche da investitori stranieri, ma alla fine a pagare per redimerlo sono sempre i cittadini. Non però gli elettori di coloro che hanno ordinato la spesa, ma le constituencies successive, che dunque, sostanzialmente, non hanno con chi prendersela.
Ed infatti, il bilancio pubblico è in sostanziale pareggio, persino in avanzo primario. Se abbiamo un deficit esso deriva dal debito pregresso.
È attraverso l'espansione del debito pubblico che è saltato il necessario rapporto tra tassazione e rappresentatività, che è il cuore di ogni democrazia matura.
L’indebitamento italiano – in sostanza - può essere letto come una tassazione indiretta che una generazione ha imposto a quelle successive per pagarsi l’espansione del proprio benessere, allontanando da sé i costi. L’Italia di oggi potrebbe essere ben simboleggiata da un Ascanio costretto ad accollarsi il peso - economico e fiscale - del padre Enea e del nonno Anchise.
Dunque, il nocciolo del problema non è rappresentare meglio le generazioni presenti, ma proteggere le generazioni future, che sulle scelte di oggi non hanno voce in capitolo e per tale via, imporre un comportamento 'virtuoso' ai decisori politici di oggi.
L’espansione della base elettorale ai minori potrebbe allora far ben poco: immetterebbe sul mercato politico persone che voterebbero in base a una carica ideale, per non dire ideologica, aggravando semmai - non pagando i sedicenni le tasse - il problema della irresponsabilità fiscale di chi vota.
Al contrario, lo dico per paradosso, la base elettorale dovrebbe essere ristretta, privando del diritto di voto coloro che hanno rotto il patto tra le generazioni su cui si regge ogni società umana (‘io preparo il tuo futuro, tu assisti la mia vecchiaia’) e hanno accollato ai loro figli e nipoti i loro debiti: quelli che Svevo chiamava “gli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società”.
Oppure, si potrebbe dar corso alla proposta (che ho ripreso in questo post) di far votare le mamme per i figli minori, il che avrebbe il vantaggio di far pesare le famiglie con figli, vale a dire quelle che hanno fatto investimenti sul futuro.
Ma credo che solo una maggiore divisione dei poteri, privando completamente il parlamento e le assemblee rappresentative del potere di ordinare la spesa, e al tempo stesso imponendo una disciplina costituzionale più rigorosa dell’indebitamento potrebbero porre rimedio al disastro italiano. Nel Regno Unito il Parlamento può solo approvare il bilancio presentato dal Governo o rigettarlo. La sessione di bilancio lì dura appena mezza giornata: altro che Legge Finanziaria...
Si vorrebbe porre in tal modo un rimedio alla straordinaria gerontocrazia italiana, che fa della nostra classe politica la più vecchia d’Europa, e il nostro un paese in drammatico declino demografico, visto che ogni risorsa va alle pensioni e al debito, mentre di politiche per la famiglia ed il futuro non si parla.
Il rimedio è virtuale, un po' come quelli che Veltroni ha applicato finora ai problemi della Capitale, che infatti continua ad essere sporca, caotica ed inquinata, solo che adesso costituisce un “Modello Roma”. Modello di cosa e per chi, non si sa bene.
Forse che i ventenni, trentenni, quarantenni già oggi non votano? Eppure i giovani in politica non contano. Lo stesso Veltroni scende in campo a un’età in cui Tony Blair si è ritirato.
Forse che le donne in Italia non votano? Sono la buona metà della popolazione, eppure la nostra rappresentanza politica femminile è la più striminzita d’Europa.
Il problema centrale del nostro paese, che gli impedisce di essere una democrazia matura e quindi un sistema competitivo ed efficiente non è il voto in sé, ma la traduzione del voto in peso politico.
In modo tipico della sinistra italiana, l’idea di Veltroni risolve il tema della partecipazione in un diritto assoluto, ed il voto a un mero strumento di “espressione”, quando esso è soprattutto una modalità di “decisione”.
L’idea che la democrazia consista essenzialmente nel “dire la propria” è perniciosamente molto diffusa in Italia. Marco Pannella, con i suoi molti e quasi tutti irrilevanti referendum, ne è stato il sommo campione.
La democrazia invece consiste nello scegliere e decidere, in modo consapevole e responsabile. Il decisore deve cioè conoscere le alternative possibili, ed essere disposto a pagare di tasca propria i costi e le conseguenze delle proprie scelte.
Nelle democrazie mature il voto non è un diritto assoluto, ma relativo, tanto che può persino essere subordinato, come in Inghilterra, al pagamento di una tassa (poll tax).
Tale diritto costituisce la contropartita di precisi doveri civici, primo tra tutti quello alla contribuzione fiscale. Si vota, insomma “col portafoglio” per difendere concreti interessi materiali: sembra prosaico, ma è così. Il motto delle grandi democrazie liberali, e non a caso la parola d'ordine della Rivoluzione Americana, è "no taxation without representation".
Ora, in Italia, quello che è appunto saltato, e che ha fatto impazzire tutto il meccanismo, è proprio il nesso tra “taxation" e "representation”, la naturale endiadi "cittadino-contribuente". L'anomalia italiana sta nel fatto che chi decide la spesa non ne paga le conseguenze, grazie ad un meccanismo di sostanziale irresponsabilità fiscale.
Facciamo un passo indietro: i parlamenti nacquero come assemblee rappresentativa di proprietari terrieri, di coloro che avevano beni al sole. Essi avevano la funzione di autorizzare il sovrano alla spesa pubblica, e quindi alla relativa tassazione, che della spesa è il corollario indispensabile. La prima, fondamentale divisione dei poteri, che è il concetto su cui si basa la democrazia moderna, è questa: tra poteri di impegno e ordinazione della spesa, e poteri di imposizione fiscale (entrate). Chi paga controlla chi spende, e per questa via si realizza un equilibrio di bilancio.
In Italia, invece, si è invertito il gioco delle parti: chi ordina la spesa non ne risponde a coloro che devono poi finanziarla. Perché ciò avviene?
Perché il Parlamento Italiano, forte di un potere legislativo praticamente assoluto, può emanare leggi di spesa, lasciando al governo l’onere della loro copertura e della quadratura dei conti.
Ora, la spesa pubblica è uno splendido strumento per l’acquisto del consenso (pork barrel), di cui i parlamentari hanno disperatamente bisogno. Per espandere la spesa, però, occorre imporre nuove tasse: queste invece non portano consenso. La soluzione italiana è stata quella di indebitarsi. Il debito può essere finanziato anche da investitori stranieri, ma alla fine a pagare per redimerlo sono sempre i cittadini. Non però gli elettori di coloro che hanno ordinato la spesa, ma le constituencies successive, che dunque, sostanzialmente, non hanno con chi prendersela.
Ed infatti, il bilancio pubblico è in sostanziale pareggio, persino in avanzo primario. Se abbiamo un deficit esso deriva dal debito pregresso.
È attraverso l'espansione del debito pubblico che è saltato il necessario rapporto tra tassazione e rappresentatività, che è il cuore di ogni democrazia matura.
L’indebitamento italiano – in sostanza - può essere letto come una tassazione indiretta che una generazione ha imposto a quelle successive per pagarsi l’espansione del proprio benessere, allontanando da sé i costi. L’Italia di oggi potrebbe essere ben simboleggiata da un Ascanio costretto ad accollarsi il peso - economico e fiscale - del padre Enea e del nonno Anchise.
Dunque, il nocciolo del problema non è rappresentare meglio le generazioni presenti, ma proteggere le generazioni future, che sulle scelte di oggi non hanno voce in capitolo e per tale via, imporre un comportamento 'virtuoso' ai decisori politici di oggi.
L’espansione della base elettorale ai minori potrebbe allora far ben poco: immetterebbe sul mercato politico persone che voterebbero in base a una carica ideale, per non dire ideologica, aggravando semmai - non pagando i sedicenni le tasse - il problema della irresponsabilità fiscale di chi vota.
Al contrario, lo dico per paradosso, la base elettorale dovrebbe essere ristretta, privando del diritto di voto coloro che hanno rotto il patto tra le generazioni su cui si regge ogni società umana (‘io preparo il tuo futuro, tu assisti la mia vecchiaia’) e hanno accollato ai loro figli e nipoti i loro debiti: quelli che Svevo chiamava “gli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società”.
Oppure, si potrebbe dar corso alla proposta (che ho ripreso in questo post) di far votare le mamme per i figli minori, il che avrebbe il vantaggio di far pesare le famiglie con figli, vale a dire quelle che hanno fatto investimenti sul futuro.
Ma credo che solo una maggiore divisione dei poteri, privando completamente il parlamento e le assemblee rappresentative del potere di ordinare la spesa, e al tempo stesso imponendo una disciplina costituzionale più rigorosa dell’indebitamento potrebbero porre rimedio al disastro italiano. Nel Regno Unito il Parlamento può solo approvare il bilancio presentato dal Governo o rigettarlo. La sessione di bilancio lì dura appena mezza giornata: altro che Legge Finanziaria...
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