Padroni del nostro futuro
Sono ben lontani i tempi in cui al Senato di Roma sedeva Marco Papirio, così dignitoso ed impassibile da poter essere scambiato dagli invasori galli per una statua di marmo: il Senato della Repubblica ha dato ieri una prova di scarso decoro in diretta nazionale, accapigliandosi per ritardare il più possibile la nomina di Franco Marini a presidente dell’Assemblea. È, anche questo, un frutto avvelenato della pessima legge elettorale architettata dal governo uscente, che non ci ha consegnato una maggioranza chiara e netta.
Grazie a questa legge elettorale, definita “una porcata” dal suo presentatore on. Calderoli, al momento del voto gli elettori si sono trovati davanti liste bloccate, preconfezionate dalle segreterie dei partiti. Ma non basta: anche dopo il voto la composizione definitiva delle due Camere non è stata decisa direttamente dagli elettori, bensì dalle opzioni esercitate da coloro che, essendosi candidati in più collegi, hanno poi scelto quali, tra i primi dei non eletti, far entrare in Parlamento e quali no.
Nel resto dell’Occidente, i cittadini vanno a votare, e il giorno dopo si sa chi ha vinto. Il popolo sovrano vota e decide. Noi italiani, invece, votiamo, ma non decidiamo. Le elezioni sono tornate ad essere, come ai tempi della Prima Repubblica, una distribuzione di carte che altri giocheranno.
Un’altra legge, poi - quella che concede il diritto di voto agli italiani all’estero - fa sì che per gli equilibri politici del paese siano determinanti i voti di chi nel paese non ci vive e non ci paga le tasse, e magari ha anche una comodissima doppia o tripla cittadinanza. Per carità, l’emigrazione italiana merita rispetto: ma essa ha ormai una rilevanza solo culturale, non economica. L’epoca in cui gli emigrati sostenevano la nostra economia con le proprie rimesse è finita da un pezzo: chi lavora all’estero in via permanente si è costruito lì una propria esistenza, e con l’Italia ormai ha poco o nulla a che spartire. Ai nostri cugini all’estero dovremmo dire come si fa negli USA: “America, love it or leave it”. Insomma, o uno rimane o se ne va, o lavora nel suo paese d’origine o in quello d’adozione.
È ben vero che tutte le grandi democrazie consentono ai cittadini espatriati di votare per posta. Ma si dimentica che Usa, Francia, Uk non hanno mai conosciuto un forte flusso migratorio in uscita, e quindi tali elettori - non molti di numero e perciò scarsamente influenti sul risultato elettorale - risiedono temporaneamente all’estero, per periodi spesso lunghi, raramente definitivi. Essi dunque votano, sia pure per posta, a casa loro, nelle circoscrizioni elettorali in patria. Invece l’Italia, già paese di forte emigrazione, si ritrova con una grande diaspora, fatta di cittadini che o hanno scelto di vivere in permanenza all’estero, o addirittura che all’estero ci sono nati. Per essi la legge elettorale ha creato maxi circoscrizioni elettorali che coprono l’intero pianeta. È logico che siano loro a determinare il destino politico del nostro paese?
Più giusto, semmai, sarebbe stato dare il voto agli immigrati, che nel nostro paese vivono, lavorano, e contribuiscono alla nostra economia.
Il quadro, insomma, è quello di un paese sempre più spossessato del diritto di decidere del proprio destino.
Torna dunque d’attualità la proposta di concedere il diritto di voto ai minori, da esercitarsi per procura legale da parte delle madri.
Sull’argomento se ne sono dette tante, ma la sua motivazione razionale è una sola: far pesare sul mercato politico le giovani generazioni. Si tratta di circa venti milioni di persone: le decisioni che oggi la classe politica prende avranno influenza sul loro futuro, il debito che si accumula lo pagheranno loro. Uno dei cardini democratici è il nesso “taxation – representation”: l’enorme debito pubblico che l’Italia ha accumulato è stato possibile proprio perché le generazioni più anziane hanno finanziato il loro benessere addossando sui giovani l’indebitamento relativo. Le “generazioni future”, dunque, non sono un’entità ‘in mente dei’, ma persone in carne ed ossa, che vivono in questo paese ben 18 anni prima di poter influire sulla politica con il loro voto. A quel punto, però, molte e rilevanti scelte che li riguardano sono già state fatte.
Inoltre, i minori sono a tutti gli effetti cittadini italiani, solo che non godono dei diritti politici. Perché non immaginare dunque che tali diritti, come del resto già avviene per i diritti civili e patrimoniali, possano essere esercitati in loro vece dai genitori, loro rappresentanti legali?
Facendo esercitare il voto alle madri, aumenterebbe inoltre il peso politico della famiglia – l’unità che fa investimenti sul futuro - e all’interno di questa, della donna.
Pensarci non farebbe male. Oggi più che mai gli italiani hanno bisogno di tornare padroni a casa propria e padroni del proprio futuro.
Grazie a questa legge elettorale, definita “una porcata” dal suo presentatore on. Calderoli, al momento del voto gli elettori si sono trovati davanti liste bloccate, preconfezionate dalle segreterie dei partiti. Ma non basta: anche dopo il voto la composizione definitiva delle due Camere non è stata decisa direttamente dagli elettori, bensì dalle opzioni esercitate da coloro che, essendosi candidati in più collegi, hanno poi scelto quali, tra i primi dei non eletti, far entrare in Parlamento e quali no.
Nel resto dell’Occidente, i cittadini vanno a votare, e il giorno dopo si sa chi ha vinto. Il popolo sovrano vota e decide. Noi italiani, invece, votiamo, ma non decidiamo. Le elezioni sono tornate ad essere, come ai tempi della Prima Repubblica, una distribuzione di carte che altri giocheranno.
Un’altra legge, poi - quella che concede il diritto di voto agli italiani all’estero - fa sì che per gli equilibri politici del paese siano determinanti i voti di chi nel paese non ci vive e non ci paga le tasse, e magari ha anche una comodissima doppia o tripla cittadinanza. Per carità, l’emigrazione italiana merita rispetto: ma essa ha ormai una rilevanza solo culturale, non economica. L’epoca in cui gli emigrati sostenevano la nostra economia con le proprie rimesse è finita da un pezzo: chi lavora all’estero in via permanente si è costruito lì una propria esistenza, e con l’Italia ormai ha poco o nulla a che spartire. Ai nostri cugini all’estero dovremmo dire come si fa negli USA: “America, love it or leave it”. Insomma, o uno rimane o se ne va, o lavora nel suo paese d’origine o in quello d’adozione.
È ben vero che tutte le grandi democrazie consentono ai cittadini espatriati di votare per posta. Ma si dimentica che Usa, Francia, Uk non hanno mai conosciuto un forte flusso migratorio in uscita, e quindi tali elettori - non molti di numero e perciò scarsamente influenti sul risultato elettorale - risiedono temporaneamente all’estero, per periodi spesso lunghi, raramente definitivi. Essi dunque votano, sia pure per posta, a casa loro, nelle circoscrizioni elettorali in patria. Invece l’Italia, già paese di forte emigrazione, si ritrova con una grande diaspora, fatta di cittadini che o hanno scelto di vivere in permanenza all’estero, o addirittura che all’estero ci sono nati. Per essi la legge elettorale ha creato maxi circoscrizioni elettorali che coprono l’intero pianeta. È logico che siano loro a determinare il destino politico del nostro paese?
Più giusto, semmai, sarebbe stato dare il voto agli immigrati, che nel nostro paese vivono, lavorano, e contribuiscono alla nostra economia.
Il quadro, insomma, è quello di un paese sempre più spossessato del diritto di decidere del proprio destino.
Torna dunque d’attualità la proposta di concedere il diritto di voto ai minori, da esercitarsi per procura legale da parte delle madri.
Sull’argomento se ne sono dette tante, ma la sua motivazione razionale è una sola: far pesare sul mercato politico le giovani generazioni. Si tratta di circa venti milioni di persone: le decisioni che oggi la classe politica prende avranno influenza sul loro futuro, il debito che si accumula lo pagheranno loro. Uno dei cardini democratici è il nesso “taxation – representation”: l’enorme debito pubblico che l’Italia ha accumulato è stato possibile proprio perché le generazioni più anziane hanno finanziato il loro benessere addossando sui giovani l’indebitamento relativo. Le “generazioni future”, dunque, non sono un’entità ‘in mente dei’, ma persone in carne ed ossa, che vivono in questo paese ben 18 anni prima di poter influire sulla politica con il loro voto. A quel punto, però, molte e rilevanti scelte che li riguardano sono già state fatte.
Inoltre, i minori sono a tutti gli effetti cittadini italiani, solo che non godono dei diritti politici. Perché non immaginare dunque che tali diritti, come del resto già avviene per i diritti civili e patrimoniali, possano essere esercitati in loro vece dai genitori, loro rappresentanti legali?
Facendo esercitare il voto alle madri, aumenterebbe inoltre il peso politico della famiglia – l’unità che fa investimenti sul futuro - e all’interno di questa, della donna.
Pensarci non farebbe male. Oggi più che mai gli italiani hanno bisogno di tornare padroni a casa propria e padroni del proprio futuro.
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