Fermiamo la strage stradale
Una bella mattina di agosto di ventisei anni fa, un piccolo pregiudicato di borgata decise che non aveva voglia di aspettare i comodi del semaforo rosso. Risalì contromano a tutta velocità la colonna di auto ferma sul lungomare di Ostia e centrò in pieno, uccidendola, una signora che passava sulle strisce. Incidentalmente, quello sventurato pedone era mia madre.
L’Italia - che ama darsi arie da campionessa dei diritti umani perché lotta contro la pena di morte - ha al suo interno una pratica assai più raccapricciante: il sacrificio umano. Ogni anno, infatti, circa 8000 persone muoiono immolate sull’altare del progresso e della motorizzazione, senza che a nessuno, apparentemente, la cosa interessi più di tanto. I morti stradali sono morti di serie B rispetto a quelli per droga o per cancro: oh, quelle sì sono emergenze sociali. Esiste anche di fronte alla morte – che dovrebbe essere la suprema livella - una gerarchia. Un morto sulla strada non suscita sufficiente “allarme sociale”: siamo tutti narcotizzati, e poi, italianamente, finché il problema tocca gli altri, non ci riguarda.
L’amore per le automobili e l’indisciplina sociale si incontrano in un mix mortale con un’altra caratteristica tutta italiana: l’infantilismo di un popolo bambino cui è del tutto estranea l’idea di assumersi le proprie responsabilità. Tale attitudine si esprime in una terminologia sintomatica: “incidenti”, “infortuni”, “disgrazia”, “fatalità”, parole che sottintendono l’incolpevolezza di chi provoca questi fatti, quasi che essi accadano da soli. Così, in occasione di un maxitamponamento in Val Padana, i giornali parleranno, per default, di “nebbia killer”, come se fosse la nebbia, e non l’eccessiva velocità, a causare tutti quei morti.
La settimana dal 23 al 29 aprile è stata dichiarata dall’ONU la prima “Settimana mondiale della sicurezza stradale”. Prego, qualcuno se n’è accorto? Sul sito del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti il comunicato è ben nascosto, e nessuno si è nemmeno preoccupato di tradurlo dall’inglese. La breve parentesi dei successi mietuti grazie alla patente a punti è ormai un ricordo: anche quell’esperienza è finita all’italiana, cioè a tarallucci e vino.
E sì che la strage stradale, al netto dei costi umani, ha anche un prezzo economico: intasa gli ospedali, i tribunali, aumenta sensibilmente i premi di assicurazione. Perché, tra l’altro, grazie al latrocinio legalizzato della RCA auto obbligatoria, la rischiosità dei pirati della strada è spalmata su tutti gli automobilisti, anche i più virtuosi. In altri paesi, chi guida male non può più assicurarsi, quindi viene appiedato dalle compagnie prima ancora che dalla legge. Qui in Italia no: chiunque ha la patente ha diritto ad essere assicurato.
L’omicidio, ancorché colposo, è, in teoria, un reato. Ma la giurisprudenza costante (è il nome tecnico della sciatteria e pigrizia dei giudici) fa sì che se la pena edittale è di cinque anni di reclusione, raramente ne venga comminato più di uno. E naturalmente non viene scontato nemmeno quello. Poi, ci sono amnistie (come quella del settembre 1981 che passò un colpo di spugna sul sangue ancora caldo di mia madre) ed indulti (e si può capire con quanto entusiasmo abbia fatto il mio dovere preparando l’ultimo, quello del 2006, che escludeva i pedofili, ma non gli assassini).
Ci si potrebbe aspettare che almeno venga ritirata per sempre la patente a quell’automobilista che, per colpa lieve o grave, abbia dimostrato comunque oltre ogni ragionevole dubbio la sua inettitudine o pericolosità alla guida. Macché, nemmeno quello. Nella scorsa legislatura fu presentato un emendamento in tal senso, applicabile però solo a chi guida in stato di ebbrezza o droga. Se vostra madre è stata ammazzata da uno che non è drogato, solo un incosciente, rassegnatevi, è una morta di serie B.
Insomma, l’uccisione di cittadini al volante è di fatto depenalizzata, e ad ogni italiano, insieme alla patente, viene consegnata una licenza di uccidere che farebbe l’invidia di James Bond. Rallegriamoci allora, che i morti non siano, ogni anno, molti di più.
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Il sito del WHO sulla "First United Nations Global Road Safety Week
Sottoscrivo in pieno il contenuto di questo articolo: Sicurezza stradale, il vero scandalo - LASTAMPA.it
Calendario di E. Galli della Loggia
L’Italia - che ama darsi arie da campionessa dei diritti umani perché lotta contro la pena di morte - ha al suo interno una pratica assai più raccapricciante: il sacrificio umano. Ogni anno, infatti, circa 8000 persone muoiono immolate sull’altare del progresso e della motorizzazione, senza che a nessuno, apparentemente, la cosa interessi più di tanto. I morti stradali sono morti di serie B rispetto a quelli per droga o per cancro: oh, quelle sì sono emergenze sociali. Esiste anche di fronte alla morte – che dovrebbe essere la suprema livella - una gerarchia. Un morto sulla strada non suscita sufficiente “allarme sociale”: siamo tutti narcotizzati, e poi, italianamente, finché il problema tocca gli altri, non ci riguarda.
L’amore per le automobili e l’indisciplina sociale si incontrano in un mix mortale con un’altra caratteristica tutta italiana: l’infantilismo di un popolo bambino cui è del tutto estranea l’idea di assumersi le proprie responsabilità. Tale attitudine si esprime in una terminologia sintomatica: “incidenti”, “infortuni”, “disgrazia”, “fatalità”, parole che sottintendono l’incolpevolezza di chi provoca questi fatti, quasi che essi accadano da soli. Così, in occasione di un maxitamponamento in Val Padana, i giornali parleranno, per default, di “nebbia killer”, come se fosse la nebbia, e non l’eccessiva velocità, a causare tutti quei morti.
La settimana dal 23 al 29 aprile è stata dichiarata dall’ONU la prima “Settimana mondiale della sicurezza stradale”. Prego, qualcuno se n’è accorto? Sul sito del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti il comunicato è ben nascosto, e nessuno si è nemmeno preoccupato di tradurlo dall’inglese. La breve parentesi dei successi mietuti grazie alla patente a punti è ormai un ricordo: anche quell’esperienza è finita all’italiana, cioè a tarallucci e vino.
E sì che la strage stradale, al netto dei costi umani, ha anche un prezzo economico: intasa gli ospedali, i tribunali, aumenta sensibilmente i premi di assicurazione. Perché, tra l’altro, grazie al latrocinio legalizzato della RCA auto obbligatoria, la rischiosità dei pirati della strada è spalmata su tutti gli automobilisti, anche i più virtuosi. In altri paesi, chi guida male non può più assicurarsi, quindi viene appiedato dalle compagnie prima ancora che dalla legge. Qui in Italia no: chiunque ha la patente ha diritto ad essere assicurato.
L’omicidio, ancorché colposo, è, in teoria, un reato. Ma la giurisprudenza costante (è il nome tecnico della sciatteria e pigrizia dei giudici) fa sì che se la pena edittale è di cinque anni di reclusione, raramente ne venga comminato più di uno. E naturalmente non viene scontato nemmeno quello. Poi, ci sono amnistie (come quella del settembre 1981 che passò un colpo di spugna sul sangue ancora caldo di mia madre) ed indulti (e si può capire con quanto entusiasmo abbia fatto il mio dovere preparando l’ultimo, quello del 2006, che escludeva i pedofili, ma non gli assassini).
Ci si potrebbe aspettare che almeno venga ritirata per sempre la patente a quell’automobilista che, per colpa lieve o grave, abbia dimostrato comunque oltre ogni ragionevole dubbio la sua inettitudine o pericolosità alla guida. Macché, nemmeno quello. Nella scorsa legislatura fu presentato un emendamento in tal senso, applicabile però solo a chi guida in stato di ebbrezza o droga. Se vostra madre è stata ammazzata da uno che non è drogato, solo un incosciente, rassegnatevi, è una morta di serie B.
Insomma, l’uccisione di cittadini al volante è di fatto depenalizzata, e ad ogni italiano, insieme alla patente, viene consegnata una licenza di uccidere che farebbe l’invidia di James Bond. Rallegriamoci allora, che i morti non siano, ogni anno, molti di più.
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Il sito del WHO sulla "First United Nations Global Road Safety Week
Sottoscrivo in pieno il contenuto di questo articolo: Sicurezza stradale, il vero scandalo - LASTAMPA.it
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