Sulla zattera della Medusa
Il 1° marzo del 1999 cominciava a Roma il Secondo Corso-Concorso di Formazione Dirigenziale presso la Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione. Sono uso commemorare quell'evento con una copertina del Controsito. Quest'anno mi è venuto in mente di usare come illustrazione il quadro "La Zattera della Medusa" di Théodore Géricault.
La scelta non è stata meditata, ma freudianamente inconscia: me ne sono accorto andandomi a rileggere la storia del naufragio della fregata La Méduse, avvenuto nel mare africano nel 1816.
In sintesi, il comandante, Hugues Duroy de Chaumareys, dopo aver portato - per incompetenza, e perché si ostinava ad usare carte non aggiornate e a non dar retta ai suoi più giovani ufficiali - la propria nave ad incagliarsi, l’abbandonò per primo sulle poche scialuppe disponibili, insieme agli ufficiali ed ai passeggeri più importanti. Il resto dell’equipaggio prese posto su una zattera al traino delle scialuppe. I nobili occupanti di queste, però, ben presto stufi di rimorchiare, pensarono bene di abbandonare la zattera alla deriva.
Riflettendoci, quindi, la vicenda mi è sembrata una perfetta metafora della condizione italiana: dove l’élite è poco aggiornata, autoreferenziale, deresponsabilizzata e niente affatto interessata a svolgere il suo naturale compito di guida della società, che anzi vive quasi come un impaccio.
Come dimostra un interessante saggio di Carlo Carboni “Elite e classi dirigenti in Italia”, ed. Laterza, l' élite italiana non è classe dirigente.
Una élite che non sa farsi classe dirigente concepisce la sua posizione come potere e privilegio, piuttosto che funzione sociale. Quindi è conservatrice, difende le sue posizioni, mentre una matura classe dirigente cresce insieme con la società, la ‘constituency’, che amministra. L’elite è statica, mentre una classe dirigente è dinamica, cioè traente.
Carboni, professore di sociologia, fa un impietoso ritratto dell’élite italiana: mediocre culturalmente, provinciale, gerontocratica, forte nell’autolegittimarsi e nel riprodursi per cooptazione, ma debole nella progettualità, incapace di favorire il civismo e la solidarietà tra i cittadini.
I quali, lasciati a sé stessi, al grido di “si salvi chi può”, si arrangiano: come dimostra il permanente caos del traffico nelle nostre città, o la microconflittualità condominiale che intasa i nostri tribunali, o la crescita dei corporativismi.
Insomma, siamo in 8 settembre permanente: una riflessione amara, certo, ma che deve spingere chi ha scelto la professione di ‘Dirigente’ a uno scatto di orgoglio, ed uno stimolo ulteriore ad assumersi, tutte intere, le proprie responsabilità.
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