Riflettendo su Ridolfi
Ho la ventura di abitare vicino a tre famose realizzazioni romane dell’architetto neorealista Mario Ridolfi (il Palazzo delle Poste di Piazza Bologna, il Villino Rea di Villa Massimo, la Palazzina di Via G.B. De Rossi). A lui sono dedicate in questi giorni a Roma ben due mostre, una alla Calcografia Nazionale e un’altra all’Accademia di San Luca (che insieme alla vicina mostra di Paolo Soleri all’Istituto per la Grafica fanno di Fontana di Trevi un vero triangolo dell’architettura moderna).
Colpisce, nel percorso di questo importante architetto, la progressiva riduzione intimistica: debuttò con il grande palazzo pubblico di Piazza Bologna, capace di essere un segno ‘forte’ nell’immagine di un quartiere moderno, per poi costruire solo palazzine e sopraelevazioni (le due celebri al Pinciano), i due quartieri popolari del Tiburtino e di Viale Etiopia, ed infine ritirarsi a Terni.
Le sue opere si mimetizzano agilmente nel contesto urbano, e bisogna felicitarsene se si pensa al diverso percorso di un Mario Fiorentino, la cui opera si svolge largamente parallela a quella di Ridolfi (la sopraelevazione del Villino Astaldi, la collaborazione al quartiere Tiburtino, le case a torre di Viale Etiopia proprio dirimpetto a quelle di Ridolfi, in un rapporto di dialogo rispettoso), per poi finire miseramente nell’opera postuma del Palazzone di Corviale, il mostruoso serpentone di edilizia popolare lungo 1 km dove abitano infelici diecimila persone.
In entrambi i casi, tuttavia, l’oscillazione tra il grande segno urbano e la cura minimalista per il particolare, denuncia l’incapacità – in un periodo di forte urbanizzazione - di codificare una nuova idea di città nella quale l’impronta dell’architetto non si riduca a manifestazione isolata ed episodica.
Colpisce, nel percorso di questo importante architetto, la progressiva riduzione intimistica: debuttò con il grande palazzo pubblico di Piazza Bologna, capace di essere un segno ‘forte’ nell’immagine di un quartiere moderno, per poi costruire solo palazzine e sopraelevazioni (le due celebri al Pinciano), i due quartieri popolari del Tiburtino e di Viale Etiopia, ed infine ritirarsi a Terni.
Le sue opere si mimetizzano agilmente nel contesto urbano, e bisogna felicitarsene se si pensa al diverso percorso di un Mario Fiorentino, la cui opera si svolge largamente parallela a quella di Ridolfi (la sopraelevazione del Villino Astaldi, la collaborazione al quartiere Tiburtino, le case a torre di Viale Etiopia proprio dirimpetto a quelle di Ridolfi, in un rapporto di dialogo rispettoso), per poi finire miseramente nell’opera postuma del Palazzone di Corviale, il mostruoso serpentone di edilizia popolare lungo 1 km dove abitano infelici diecimila persone.
In entrambi i casi, tuttavia, l’oscillazione tra il grande segno urbano e la cura minimalista per il particolare, denuncia l’incapacità – in un periodo di forte urbanizzazione - di codificare una nuova idea di città nella quale l’impronta dell’architetto non si riduca a manifestazione isolata ed episodica.
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