L'Imperatore la Regina

Adriano La Regina è stato riconfermato Sovrintendente archeologico di Roma, carica che detiene da 28 anni e che manterrà, ormai, fino alla pensione. La sua longevità è il segno più evidente di quanto possa essere assai più incisiva, nella vita di una comunità, una Alta Amministrazione dotata di sufficienti poteri, alto profilo culturale e coscienza della propria missione, rispetto a una direzione politica che vive nel segno della precarietà e dell'inesperienza e impreparazione del suo personale.
Guardando a questi 28 anni, i risultati sono molti, e tuttavia l'impressione è quella di un generale che abbia aperto troppi fronti, senza riuscire a chiuderne uno solo. Così è stato terminato il restauro delle Colonne Imperiali, ampliato il Museo Archeologico Nazionale. Ma il parco dell'Appia Antica rimane tale solo sulla carta, i magazzini dei musei traboccano di nuovi ritrovamenti che non possono essere esposti, i risultati dei restauri sono precari, visto che l'inquinamento continua a corrodere i marmi all'aperto.
Il Sovrintendente è stato inviso a molti sindaci di diverso colore politico per aver imposto una normativa vincolistica che ha spesso rallentato se non fermato importanti lavori pubblici e progetti urbanistici, quali la metropolitana e lo SDO. E certamente va a suo merito l’aver salvaguardato molti beni culturali e ritrovamenti archeologici. Tuttavia rimane irrisolto il problema di un corretto rapporto tra Roma moderna e archeologia, che Adriano la Regina, come tutti i suoi predecessori, ha continuato a considerare principalmente nel segno dello scavo.
L’idea corrente che l’archeologia consista essenzialmente nella salvaguardia è smentita dall’osservazione di quanta parte del tessuto urbano è andata persa negli sventramenti e negli scavi dal 1907, anno della prima sistemazione della Passeggiata Archeologica con la legge Baccelli, fino ad oggi. Per riportare alla luce l’area archeologica centrale, fu demolito tutto il rione compreso tra la Piazza Venezia e il Colosseo. Sicché una città che era cresciuta stratificandosi sul suo passato, nascondendolo e proteggendolo - al punto da simboleggiare per Freud l’animo umano - oggi si presenta divisa in parti ben distinte, con un grande catino archeologico da una parte, popolato da mute testimonianze monumentali e depurato da ogni residenza e attività economica che non sia il turismo, e il centro rinascimentale dove invece la stratificazione tradizionale persiste in assoluta e felice simbiosi.
Poteva andare diversamente? Al di là dell’Adriatico, il centro di Spalato, cresciuto all’interno del Palazzo Imperiale di Diocleziano e oggi brulicante di vita, ci dice che un diverso rapporto tra passato e presente è possibile.
A Roma però si continuano a sprecare occasioni. I discussi lavori per la nuova Ara Pacis di Meyer ignorano il problema, già sollevato venti anni fa da Bruno Zevi, di una ricucitura del tessuto urbano nel luogo del più orrendo misfatto urbanistico fascista, la Piazza Augusto Imperatore. Provocatoriamente Zevi suggeriva di ricostruire l’auditorium di Roma proprio lì - nel Mausoleo imperiale impietosamente ridotto dal piccone di regime a “dente cariato” e poi circondato dalle vuote e sepolcrali scenografie di Ballio Morpurgo. Dov’era, se non com’era. Ma dubito che La Regina, troppo legato all’antica idea vincolistica, acconsentirebbe. Ove è stato necessario fare convivere antico e moderno, finora il rapporto si è risolto in fredda e rispettosa contiguità (si veda l’ennesimo catino archeologico a fianco dell’Auditorium di Renzo Piano), mai in continuità.
Ci vorrebbe forse più coraggio. Pensando a Spalato.

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