IL CITTADINO CON LA TOGA
di ANGELO PANEBIANCO
Corriere della Sera 8 maggio 2002
Gli arresti dei poliziotti, e i conflitti interni alla Procura di Napoli, continuano a scuotere il sistema politico. Comunque finisca la storia, però, resterà agli atti un episodio che molti giudicano secondario, ma che non lo è. E’ invece uno di quei «dettagli» che, come spesso capita ai dettagli, permettono di comprendere molte cose. Mi riferisco al caso di quel gip (giudice delle indagini preliminari) che, dopo avere accompagnato il figlio alla manifestazione dei no global (sui cui disordini indaga la Procura), ha sostenuto di non trovarci nulla di male, essendo egli, prima che un giudice, un cittadino come gli altri. Non bisogna crocifiggere quel particolare magistrato. Egli ha ribadito, con il suo comportamento e le sue parole, un’idea ormai diventata comune, probabilmente condivisa da tanti suoi colleghi. L’idea è che il giudice (il magistrato della giudicante), usufruendo delle prerogative che la Costituzione attribuisce a qualunque cittadino, debba, se lo vuole, potersi esprimere liberamente sulle questioni pubbliche, assumere posizioni politiche, eccetera. Non siamo forse in democrazia, perbacco, e il giudice non è anch’egli un cittadino? Il fatto che un’idea all’apparenza così ragionevole, ma nei fatti così aberrante, si sia fatta strada fino a diventare senso comune è una testimonianza del degrado, probabilmente irrimediabile, che ha colpito le istituzioni di quello che un tempo veniva chiamato (ottimisticamente) «Stato di diritto». E’ davvero il giudice (e fin quando ci sarà l’unità delle carriere, anche il pubblico ministero) un cittadino come gli altri? Ma nemmeno per idea. Egli non è affatto un cittadino come gli altri. Per la delicatezza della sua funzione, egli gode di privilegi che non spettano a nessun altro cittadino, e a quei privilegi corrispondono doveri. Talché, se vengono meno i doveri, non si comprende perché dovrebbero restare i privilegi.
Parlo dei privilegi (diritto a essere giudicati, per mancanze disciplinari, solo da colleghi eletti dagli stessi magistrati, inamovibilità, carriere amministrate dalla magistratura stessa, eccetera) che compongono ciò che viene definito «indipendenza della magistratura». L’indipendenza della magistratura, a sua volta, se non è solo la risorsa di potere di una corporazione, non è altro che un mezzo: un mezzo per favorire l’imparzialità del giudice, per avvicinarsi il più possibile a questo ideale. L’imparzialità è il fine. Ma in materia di imparzialità l’apparenza conta quanto la sostanza. Non devi solo (sforzarti di) essere imparziale. Devi anche apparirlo.
Ecco perché fra tutte le sciocchezze diventate senso comune nella nostra Repubblica quella del giudice «cittadino come gli altri» e che può quindi schierarsi come, quando e dove gli pare, è fra le più devastanti. Distruggete l’immagine di imparzialità del giudice, e alla lunga del giudice una società non saprà più che farsene: tanto varrà, a quel punto, ripiegare sul duello, la faida, o il giudizio di Dio.
E’ rimediabile questa situazione? Probabilmente no. A meno, forse, di cambiare gioco. Questa storia del giudice «cittadino come tutti gli altri», a pensarci bene, non è altro che l’ennesima testimonianza della crisi irreversibile dello Stato come lo abbiamo conosciuto in Europa negli ultimi due secoli. In quello Stato, il giudice era un «funzionario», assunto in giovane età per concorso, cui il costume, prima ancora che la legge, imponeva un comportamento rigidamente codificato. Se quello Stato è arrivato al capolinea, come molti oggi dicono, c’è allora arrivato anche il giudice-funzionario che di quello Stato è un’espressione.
Perché allora non cominciare a fare come si è sempre fatto in Gran Bretagna, dove il giudice-funzionario non è mai esistito? Perché non pensare di reclutare i futuri giudici fra gli avvocati anziani e di maggior prestigio? Non è sicuro che potremmo così ricostituire quell’immagine di imparzialità che da noi il giudice ha perduto. E’ sicuro però che non la ricostituiremo lasciando le cose come stanno.
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