Ecco che cosa ti aspetta se vuoi insegnare all'università


Corriere della Sera 16 ottobre 2001
di Francesco Alberoni (di norma Alberoni è solo un abile rivenditore di aria fritta, ma questa è inoppugnabile)

La carriera universitaria, che dovrebbe allevare individui liberi e creativi, in Italia produce dipendenza, incertezza e servilismo. Nel sistema economico chi non si trova bene in una impresa se ne cerca un’altra, ed ogni impresa sceglie la persona più adatta ai suoi scopi. Nell’università no. Perché anche se, formalmente, ci sono moltissimi atenei, è come se ce ne fosse uno solo. Tutti i programmi sono centralizzati e, per ogni materia, tutti i professori vengono scelti da un unico gruppo di potere nazionale. Il laureato, di solito, incomincia la carriera universitaria con un Assegno di Ricerca. Decide una Commissione Giudicatrice. In realtà è il professore che presenta il suo candidato, e i suoi colleghi lo promuovono in quanto lui promette di promuovere uno dei loro. Così il giovane incomincia a lavorare con quel «maestro» da cui dipenderà, d’ora in avanti, tutto il suo futuro. Dopo un tirocinio di alcuni anni, gli dicono di prepararsi al Concorso Statale per diventare Ricercatore. Qui la commissione è eletta da tutti i professori italiani della materia con un meccanismo elettorale complicatissimo. Che, però, è governato da un ristretto gruppo di potere politicamente orientato, e decide in anticipo chi dovrà essere promosso e chi no. Perciò al nostro giovane andrà bene solo se il suo maestro è inserito nella cordata giusta. Mettiamo che riesca.
Ora è diventato Ricercatore. Ha circa 35 anni, uno stipendio da fame e deve aspettare tre anni per la conferma. Tre anni sulle spine. Ma è la regola: deve sempre sentirsi sotto giudizio, chinare la testa, fare il bravo.

Dopo qualche anno, se ha fatto le ricerche gradite ai superiori, lo autorizzeranno a partecipare al Concorso di Professore Associato. Anche questa Commissione Giudicatrice Nazionale viene eletta dallo stesso Gruppo di Potere che ha scelto quella del concorso precedente. Ed ha già stabilito, in anticipo, chi vincerà e chi no. Supponiamo che lo facciano vincere. E’ sui 45 anni e deve fare altri tre anni per avere la conferma. Quindi pazienza e prudenza.

Passa altro tempo e, al nostro amico, resta solo l’ultima tappa, quella di Professore Ordinario, la più difficile. Ora deve assolutamente essere nella cordata giusta, aver dato le giuste garanzie politiche, non avere nemici ed essere stato inserito con molto anticipo nell’elenco di coloro che saranno promossi. Se si è comportato proprio per bene può farcela, entro i 55 anni. Più i soliti tre anni per la conferma. Così, verso i sessant’anni, sarà finalmente libero di creare e di scrivere quello che pensa, prima di andare in pensione a 65.
Signor ministro, mi creda, oggi chi fa carriera universitaria in Italia è come un cane tenuto al guinzaglio per tutta la vita. Una condizione umiliante. Ma non sono gli uomini ad essere malvagi, sono sbagliate le regole, le istituzioni. [Su questo non sono d'accordo: se le regole sono così, è perché fa comodo così: chi accetta questa trafila, ne avrà pure dei vantaggi, no? ndq]

L’autonomia non esiste, la concorrenza non esiste, le elezioni del Cun e delle commissioni dei concorsi nazionali sono manovrate. Negli Stati Uniti i professori li scelgono le Università in base alle loro esigenze. Perciò un bravo ricercatore può fare una carriera folgorante. Quando Watson e Crick hanno scoperto l’elica del Dna e hanno preso il premio Nobel, Crick era giovanissimo e nemmeno dottore. Da noi no. Per questo c’è la fuga dei cervelli, le personalità più creative lasciano l’università, e i professori di valore sono amareggiati e senza fiducia.

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