La rabbia e l'orgoglio


di Oriana Fallaci
dal "Corriere della sera" del 29 settembre 2001

...Quando ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci.

E a proposito dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S'è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me, pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle. Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l'America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili.

Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d'essere esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria... In inglese la parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun- lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c'è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia. Eh! C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato.

Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli- americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti). È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione Americana. Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Bè, secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.

...... Contenti? Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio...

...Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all'America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia- s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline. Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli- sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem. Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.

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