ATENEI DELL’ARROGANZA - DA MARTA RUSSO AI PROF COL TELEFONINOErmanno BencivengaSabato 10 Febbraio 2001 Corriere della Sera
QUALCHE giorno fa ho dichiarato che gli studenti universitari italiani sono mediamente meglio preparati dei loro coetanei americani. Sanno cioè mediamente di più non solo di letteratura e storia, ma anche di analisi matematica e fisiologia generale. Su una cosa però i ragazzi d’oltre oceano sembrano decisamente in vantaggio sui nostri, e me ne rendo conto con particolare vivezza da quando, nel luglio scorso, dirigo gli scambi internazionali tra l’Università di California e varie università italiane. Gli studenti californiani sono abituati a essere trattati con rispetto, non per paternalistica concessione ma per una norma elementare di convivenza la cui violazione suscita, prima ancora che sdegno, autentico stupore. E’ difficile quindi far loro comprendere l’atteggiamento di docenti che, pur se magari brillanti ed eruditi, saltano sistematicamente le ore di ricevimento, interrompono una lezione per rispondere al cellulare o si concedono pesanti commenti personali durante gli esami, spesso peraltro conclusi con giudizi tanto perentori quanto inarticolati. La scusa che si tratti di «differenze culturali» non va molto lontano, e presto alle domande perplesse di questi ragazzi non si sa più che cosa rispondere. La loro impressione è di trovarsi in balia di divinità imprevedibili e bizzose.
Quando in un’università una studentessa cade trafitta da un colpo di rivoltella, il caso raggiunge le prime pagine dei giornali e vi soggiorna a lungo. Ma si tratta della punta più appariscente di un grande iceberg sommerso: episodi così estremi rientrano nella logica colpevole di un ambiente in cui circolano impunite arroganza, incoscienza e intimidazione. «Comandare è meglio che fottere», recita uno dei detti più squallidi della nostra «cultura», anche se poi chi comanda spesso si dà anche molto da fare per fottere. E’ un detto di tragica attualità nei templi dell’accademia, dove i soldi non sono molti e i riconoscimenti al merito sono ancor meno, ma dove il potere rappresenta l’obiettivo principale e il trofeo esibito con maggior diletto. A spese di quanti dovrebbero guardare ai «luminari» come a maestri di vita e ne sono invece usati, con tragica regolarità, come carne da macello.
La strategia più comune in Italia, quando si affronta un problema qualsiasi, è quella di cambiare le regole. L’abbiamo fatto con il sistema elettorale quando scoppiò Tangentopoli e l’abbiamo fatto ripetutamente, per rimanere vicini al nostro tema, con i concorsi e i programmi universitari. Già Manzoni illustrava però con sapiente ironia quanto sia inutile un confuso sovrapporsi di grida sempre nuove e diverse se l’ambiente sociale rimane lo stesso. Così, puntualmente, corruzione e favoritismi continuano dopo ogni rivoluzione procedurale; e temo che anche il cattivo funzionamento della scuola italiana (un cattivo funzionamento che, insisto, non è intellettuale ma morale; siamo tutti molto furbi ma, ahimè, non altrettanto giusti) sopravvivrà a qualsiasi riforma se non cambieranno il nostro senso di responsabilità e le legittime aspettative che ciascuno ha il diritto di avere sul comportamento altrui
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