Sì, possiamo; ma vogliamo?
Molto tempo fa avevo messo sul mio blog un badge di supporto per Barack Obama presidente. La dimensione della sua vittoria, netta, inequivocabile, insegna molte cose a un’Europa stanca e a un’Italia miserabilmente gerontocratica. Che non è più il tempo dei Grandi Vecchi (che spesso sono vecchi, e basta), ma dei giovani ambiziosi; che sulla mancanza di esperienza fanno premio il sogno e la visione; che la democrazia non è un sistema morto, se si presenta qualcuno che ha idee e il coraggio di cambiare. Allora si svegliano gli apatici, tornano a partecipare i disillusi.
Per molto tempo l’America è stata il modello della ‘democrazia della delega in bianco’: lì era nata l’idea pericolosa che un Paese intero potesse essere governato da un comitato elettorale contando sulla indifferenza della stragrande maggioranza dei cittadini, e sulla scarsa partecipazione al voto. Una democrazia formale e senz’anima, che si risolveva nel rituale della scheda nell’urna. Sembrava ci fosse una vera e propria congiura, non solo in America ma in tanti paesi dell’Occidente, a presentare candidati simili con programmi fotocopia (in Italia, il “Veltrusconi”), come a suggerire che non ci fosse scelta, che sui grandi temi non ci fossero opzioni possibili, che la politica si riducesse ad ordinaria amministrazione, e la competizione elettorale fosse solo una gara a chi è più telegenico e riesce a polpettizzare una ricetta in uno slogan semplice e di immediato impatto, comprensibile alle masse più ignoranti.
Obama ha sparigliato le carte, e l’America ha ripreso d’un colpo la sua leadership morale sul mondo libero, ponendo fine a otto anni che per noi, liberali e democratici convinti, e suoi amici, sono stati di autentica agonia. L’Europa è curiosamente entusiasta: il nostro continente fatica ad integrare i suoi immigrati, e difficilmente offrirebbe a una persona di colore un posto così importante. Il complesso di superiorità europeo, già del tutto infondato, da domani verrà messo a dura prova. Da quella parte dell’Atlantico si compete, ci si rinnova, si guarda al futuro. Da questa, siamo presi in una sorta di narcisismo anale che impedisce di liberarci della zavorra del passato e progettare il nuovo.
Soprattutto in Italia, paese che vive da 16 anni una transizione agonica verso il nulla, faremmo bene a iniziare serie riflessioni, piuttosto che correre in aiuto del vincitore, come al solito, cercando impossibili somiglianze tra Obama e i politici italiani, e tra il partito democratico USA e quello nostrano.
Insomma, non basta gridare “Yes, we can”. Anche noi italiani possiamo (cambiare), certo. Ma lo vogliamo davvero?
Per molto tempo l’America è stata il modello della ‘democrazia della delega in bianco’: lì era nata l’idea pericolosa che un Paese intero potesse essere governato da un comitato elettorale contando sulla indifferenza della stragrande maggioranza dei cittadini, e sulla scarsa partecipazione al voto. Una democrazia formale e senz’anima, che si risolveva nel rituale della scheda nell’urna. Sembrava ci fosse una vera e propria congiura, non solo in America ma in tanti paesi dell’Occidente, a presentare candidati simili con programmi fotocopia (in Italia, il “Veltrusconi”), come a suggerire che non ci fosse scelta, che sui grandi temi non ci fossero opzioni possibili, che la politica si riducesse ad ordinaria amministrazione, e la competizione elettorale fosse solo una gara a chi è più telegenico e riesce a polpettizzare una ricetta in uno slogan semplice e di immediato impatto, comprensibile alle masse più ignoranti.
Obama ha sparigliato le carte, e l’America ha ripreso d’un colpo la sua leadership morale sul mondo libero, ponendo fine a otto anni che per noi, liberali e democratici convinti, e suoi amici, sono stati di autentica agonia. L’Europa è curiosamente entusiasta: il nostro continente fatica ad integrare i suoi immigrati, e difficilmente offrirebbe a una persona di colore un posto così importante. Il complesso di superiorità europeo, già del tutto infondato, da domani verrà messo a dura prova. Da quella parte dell’Atlantico si compete, ci si rinnova, si guarda al futuro. Da questa, siamo presi in una sorta di narcisismo anale che impedisce di liberarci della zavorra del passato e progettare il nuovo.
Soprattutto in Italia, paese che vive da 16 anni una transizione agonica verso il nulla, faremmo bene a iniziare serie riflessioni, piuttosto che correre in aiuto del vincitore, come al solito, cercando impossibili somiglianze tra Obama e i politici italiani, e tra il partito democratico USA e quello nostrano.
Insomma, non basta gridare “Yes, we can”. Anche noi italiani possiamo (cambiare), certo. Ma lo vogliamo davvero?
Fondamentalmente condivido. Condivido nello spirito. E però, sai, qualcosa non quadra. At the end of the day, ieri hanno votato appena due milioni di elettori in più di quattro anni fa (Obama ha preso sei milioni di voti più di Kerry, e McCain 4 meno di Bush). Non è poi molto. Nulla rispetto a quanto è successo da noi nel 2006. Il vero balzo in America l'ha fatto il 2004. Ma il messaggio di Obama è passato sui media. E' stato lui.
RispondiEliminaIo penso invece che sia stato l'effetto combinato di sette anni di guerra e del crack borsistico.
Poi, aggiungi un'altra considerazione. Obama ha speso più di 800 milioni di dollari, secondo alcuni persino 900. Ha saturato lo spazio mediatico, sequestrando addirittura alla fine i maggiori network nazionali americani con uno spot di mezzora. Berlusconi dice che il consenso politico è funzione, in campagna elettorale, delle spese pubblicitarie per promuoverti. Stai a vedere che ha ragione! Mentre McCain ha fatto una campagna artigianale, a conduzione familiare si sarebbe detto un tempo. C'è quindi un reverse side non proprio perfetto dietro la vetrina scintillante.
Non lo scrivo per contraddirti. Sono riflessioni in libertà che ho fatto oggi. Io condivido tutto il resto che hai scritto. In particolare, che la vittoria di Obama renderà più facile la posizione di chi è amico dell'America. Ma credo che dobbiamo demistificare la montatura propagandistica. Perchè è stata forte.
Sul nero al potere. Bello. Però il parallelo con l'Europa non è del tutto appropriato: l'America è una nazione costruita dal resto del mondo, tramite l'afflusso continuo di migranti provenienti dai quattro angoli del globo. Come si fa a confrontarci con loro? Non si può, purtroppo.
L'ultima considerazione: a Mosca è al potere un uomo che ha cinque anni meno di Obama, è giovane anche Sarkozy e così pure lo sono Zapatero e Cameron. Mi sa che siamo noi il problema.
Bello comunque.
G
1) Due milioni di voti in più, considerato che l’elezione Bush-Gore si risolse per uno scarto minimo, non mi sembrano pochi. Soprattutto, secondo me non è cambiato solo il numero, ma anche la composizione sociale e demografica degli elettori. Bush vinse facendo venire allo scoperto gli evangelici. Obama ha mobilitato i neri, le minoranze, tutta gente che non votava normalmente. E soprattutto i giovani.
RispondiElimina2) Certo che i soldi in campagna elettorale contano! Solo, è il modo di procurarseli che da noi non è affatto trasparente. In America devi dire chi ti finanzia, e come. Però non dimentichiamo quanto sia stata importante la mobilitazione popolare, il porta a porta e via dicendo. Obama non era ricchissimo di suo, ed ha raccolto un sacco di piccole donazioni attraverso Facebook, e altri piccoli gruppi.
3) Certamente è un problema per noi, Europa ed Italia, non sapere mobilitare il contributo dei giovani e degli immigrati. Siamo notoriamente un paese senescente e gerontocratico. Chi può negarlo?