Italiani brava gente?
Il pestaggio di un cinese a Tor Bella Monaca da parte di una banda di bulli che aveva già aggredito degli africani, è un brutto campanello d’allarme. Il razzismo c’entra, indubbiamente. Anche se chi commette atti del genere ha una testa così vuota che sarebbe persino fargli un complimento attribuirgli una qualche sorta di ideologia o forma di pensiero organizzato. I vari -ismi sono sempre il paravento dietro il quale si nasconde l'assoluta mancanza di una personalità.
Quello che è accaduto è il percolato di un mantra che ci viene ripetuto ossessivamente: gli stranieri sono pericolosi e minacciano la nostra società. E poco male se è vero il contrario, se è invece grazie al contributo di questa povera gente, desiderosa di lavorare e di spaccarsi la schiena, che continuiamo ad andare avanti.
Anzi, proprio per questo. Al borgataro, la disponibilità al sacrificio di un africano, capace di attraversare il deserto e il mare per venire a raccogliere pomodori, appare solo un memento della propria pigrizia ed inettitudine. Il dinamismo e la capacità imprenditoriale dei cinesi sono fumo negli occhi per chi non saprebbe vivere senza sussidi parassitari o lavoretti precari. I ragazzi che vivono fino all’età adulta con i genitori, viziati e protetti, come possono sopportare senza vergognarsi la vista di chi pur di lavorare ha attraversato i continenti?
È una guerra tra poveri, certo: ma sono poveri di diversa qualità. Da un lato i nostri poveri che per ignavia resteranno sempre poveri, dall’altro i poveri intraprendenti che combattono per avanzare nella vita.
Ai poveri nostrani è stato raccontato per un mezzo secolo che la colpa della loro condizione era altrove. Che essi erano vittime. E adesso arrivano questi da fuori, i perdenti della storia, eppure non si rassegnano, ma lottano allo stremo per migliorare la loro condizione. Hanno voglia di lavorare, loro. La loro stessa presenza è una smentita al vittimismo imperante. Pestarli significa riportarli alla condizione di vittime, illudersi di risalire almeno di una casella nella gerarchia sociale. Non si è mai gli ultimi, se c’è qualcuno più in basso di noi.
Dalla propria bile, il proletariato elabora il razzismo per dimenticare la propria stessa marginalità: è stato così nel sud bianco e depresso degli USA che inventò il Ku Klux Klan, e nella Germania Orientale da Rostock in giù che riscoprì il nazismo.
Io non sento alcuna solidarietà etnica, nessuna consanguineità, con i colpevoli di questi atti. Miei “compatrioti”? Ma nemmeno per sogno. Tante fonti mi dicono che devo diffidare degli stranieri. Ma io che vivo nella periferia romana, e vedo che gente ci abita, confesso che mi sento minacciato soprattutto dall’aggressività e dalla volgarità di certi ‘vicini’, bianchi ed inequivocabilmente italiani, che mi circondano. Una recente indagine del Censis ha rivelato che tra le maggiori città del mondo Roma è quella più impaurita. Non per caso: che città è quella in cui si segnala un problema a un membro delle forze dell'ordine e quello risponde che non è di sua competenza? È facile e comodo identificare gli stranieri come i responsabili unici dell’insicurezza collettiva. Ma davvero, se essi tornassero tutti a casa loro, staremmo più tranquilli? È un’idea rassicurante, ma manifestamente falsa.
Per capire una certa periferia romana, un certo sottoproletariato urbano, occorrerebbe riprendere in mano alcuni scritti di Cesare Lombroso e di Alfredo Niceforo. Triste destino, il loro, crocifissi alla cattiva fama di simboli tetri del positivismo superficiale e razzista.
Eppure, furono studiosi tutt’altro che mediocri, alfieri di una cultura progressista che avrebbe voluto fare dell’Italia un "paese civile", cominciando col distruggere le tante illusioni sulla ricchezza del meridione, sulle eccellenti qualità dell’italiano medio, sulla nostra antica, superiore, civiltà e blabla' blabla'.
Continuiamo invece imperterriti a coltivare queste illusioni, che hanno il fascino inossidabile dei radicati luoghi comuni. Ci compiacciàmo di essere “Italiani brava gente”. Finché qualcuno – inequivocabilmente italiano – non spacca la testa a un nero solo perché ha rubato un biscotto….
Quello che è accaduto è il percolato di un mantra che ci viene ripetuto ossessivamente: gli stranieri sono pericolosi e minacciano la nostra società. E poco male se è vero il contrario, se è invece grazie al contributo di questa povera gente, desiderosa di lavorare e di spaccarsi la schiena, che continuiamo ad andare avanti.
Anzi, proprio per questo. Al borgataro, la disponibilità al sacrificio di un africano, capace di attraversare il deserto e il mare per venire a raccogliere pomodori, appare solo un memento della propria pigrizia ed inettitudine. Il dinamismo e la capacità imprenditoriale dei cinesi sono fumo negli occhi per chi non saprebbe vivere senza sussidi parassitari o lavoretti precari. I ragazzi che vivono fino all’età adulta con i genitori, viziati e protetti, come possono sopportare senza vergognarsi la vista di chi pur di lavorare ha attraversato i continenti?
È una guerra tra poveri, certo: ma sono poveri di diversa qualità. Da un lato i nostri poveri che per ignavia resteranno sempre poveri, dall’altro i poveri intraprendenti che combattono per avanzare nella vita.
Ai poveri nostrani è stato raccontato per un mezzo secolo che la colpa della loro condizione era altrove. Che essi erano vittime. E adesso arrivano questi da fuori, i perdenti della storia, eppure non si rassegnano, ma lottano allo stremo per migliorare la loro condizione. Hanno voglia di lavorare, loro. La loro stessa presenza è una smentita al vittimismo imperante. Pestarli significa riportarli alla condizione di vittime, illudersi di risalire almeno di una casella nella gerarchia sociale. Non si è mai gli ultimi, se c’è qualcuno più in basso di noi.
Dalla propria bile, il proletariato elabora il razzismo per dimenticare la propria stessa marginalità: è stato così nel sud bianco e depresso degli USA che inventò il Ku Klux Klan, e nella Germania Orientale da Rostock in giù che riscoprì il nazismo.
Io non sento alcuna solidarietà etnica, nessuna consanguineità, con i colpevoli di questi atti. Miei “compatrioti”? Ma nemmeno per sogno. Tante fonti mi dicono che devo diffidare degli stranieri. Ma io che vivo nella periferia romana, e vedo che gente ci abita, confesso che mi sento minacciato soprattutto dall’aggressività e dalla volgarità di certi ‘vicini’, bianchi ed inequivocabilmente italiani, che mi circondano. Una recente indagine del Censis ha rivelato che tra le maggiori città del mondo Roma è quella più impaurita. Non per caso: che città è quella in cui si segnala un problema a un membro delle forze dell'ordine e quello risponde che non è di sua competenza? È facile e comodo identificare gli stranieri come i responsabili unici dell’insicurezza collettiva. Ma davvero, se essi tornassero tutti a casa loro, staremmo più tranquilli? È un’idea rassicurante, ma manifestamente falsa.
Per capire una certa periferia romana, un certo sottoproletariato urbano, occorrerebbe riprendere in mano alcuni scritti di Cesare Lombroso e di Alfredo Niceforo. Triste destino, il loro, crocifissi alla cattiva fama di simboli tetri del positivismo superficiale e razzista.
Eppure, furono studiosi tutt’altro che mediocri, alfieri di una cultura progressista che avrebbe voluto fare dell’Italia un "paese civile", cominciando col distruggere le tante illusioni sulla ricchezza del meridione, sulle eccellenti qualità dell’italiano medio, sulla nostra antica, superiore, civiltà e blabla' blabla'.
Continuiamo invece imperterriti a coltivare queste illusioni, che hanno il fascino inossidabile dei radicati luoghi comuni. Ci compiacciàmo di essere “Italiani brava gente”. Finché qualcuno – inequivocabilmente italiano – non spacca la testa a un nero solo perché ha rubato un biscotto….
Commenti
Posta un commento