Il Signore dei Tornelli




Il mitico prof. Brunetta ne ha pensata un’altra delle sue: vuole mettere i tornelli anche per i magistrati. Auguri! Temo però che costringere questa benemerita categoria a restare in ufficio sarà un po' difficile, per il semplice motivo che spesso i magistrati un ufficio nemmeno ce l’hanno, e si recano a Palazzo di Giustizia solo per dare udienza. Il resto del lavoro lo fanno a casa… Appostatevi dunque attorno a un ufficio giudiziario. Quei signori che ne escono con grossi trolleys sono giudici che si portano a casa fascicoli spesso pesanti decine di chili; no, i magistrati hanno molti - brutti - difetti, non quello di essere degli infingardi.

Il prof. non lo sa, e perché mai lo dovrebbe sapere? Occorrono forse competenza e conoscenza dei problemi per fare il suo lavoro? L’epoca in cui a Palazzo Vidoni sedevano giuristi esperti di Pubblica Amministrazione del calibro di Sabino Cassese, Massimo Severo Giannini, Franco Bassanini, è finita da un pezzo. Chiunque di noi, poveri mortali, intraprenda un nuovo lavoro, vi si accosta con umiltà: ogni nuovo ministro della FP è arrivato invece con la sua geniale ideuzza per mettere a posto tutto. Così il predecessore di Brunetta, Nicolais, annunciò già il primo giorno che si sarebbe dedicato a un’opera mastodontica: mettere in rete la PA. Geniale. Peccato che la Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione esistesse già da dieci anni. Ma informarsi, prepararsi, no?? Forse credeva che gli impiegati portassero ancora le mezze maniche e intingessero il pennino nel calamaio, come Monsù Travet.

Ormai siamo tutti fannulloni, per definizione, e il prof. Brunetta è la nostra vindice catarsi. Il popolo bue, dimentico di quanti soldi gli costa la Casta della politica, applaude a soluzioni che, più che semplici, sono semplicistiche. Valutazione dei risultati, controllo di gestione, benchmarking, performance assessment? Macché, la soluzione era semplicissima e a portata di mano: i tornelli… e con essi l’idea - vecchia - che un ufficio sia una specie di stalla dalla quale occorre impedire ai buoi di scappare. Nell'epoca del telelavoro c'è ancora chi crede che “andare in ufficio” sia la stessa cosa che “lavorare”.

Intendiamoci, sono sempre stato severissimo con i miei dipendenti che sgarrassero con l’orario, o che fossero sorpresi a fare una pausa caffè al bar. Non ho bisogno di tornelli, io, basta la mia ira funesta che colpirebbe chiunque venisse trovato in fallo. E ho avuto furibondi scontri con i sindacati per questo. Anche perché non ne ho mai apprezzato la cultura fantozziana del rosicchiare sempre qualcosa all’orario di lavoro: e il tempo tecnico, e la pausa caffè, e la revoca della pausa pranzo con diritto alla conservazione del buono pasto, e la flessibilità, e i turni, ed i mille istituti partoriti dalla loro fervida fantasia per erodere il tempo retribuito dall’amministrazione; mai un accenno alla qualità dei servizi resi all'utenza, e ti credo che adesso tutti ci odiano...
Ma penso anche che il lavoro debba essere qualcosa di creativo, da svolgere in ambienti il più possibile adeguati, e responsabilizzando e valorizzando i dipendenti, che hanno bisogno di qualcosa di più e diverso che un cane da guardia.

Soprattutto, ancora più vecchio in Brunetta è questo atteggiamento sprezzante nei confronti della Pubblica Amministrazione, e dell’intero settore pubblico, trattato dagli anni di Reagan e della Thatcher come l’inutile sovrastruttura che impedisce alla libera iniziativa privata di crescere e prosperare, come l’idrovora che sugge ricchezza dal paese e la trasforma automaticamente in spreco.

Peccato che dal giorno del suo insediamento ad oggi, quella ideologia abbia dimostrato la sua inconsistenza, e il mondo si stia leccando le ferite per i fallimenti, clamorosi, del mercato.

Pier Luigi Battista sul Corrierone ha scritto: “meriterebbe un epitaffio o un elogio funebre il liberismo polverizzato dal crollo del mercato, dagli americani convertiti al verbo della nazionalizzazione, dall'uragano statalista che sommerge persino il ricordo dei ruggenti anni '80. Reagan disse che lo Stato non risolve i problemi, lo Stato è il problema". Ricordando gli anni ruggenti della Thatcher, la teoria dello "Stato minimo", Battista conclude: “Quell'edonismo si è spento" - conclude - "quell'epoca è tramontata con il grande crac in cui s'implora l'intervento del moderno redentore: lo Stato.

E su Newsweek Francis Fukuyama, scrive dei danni immensi che che anni di
reaganismo ideologico hanno portato al settore pubblico:
“The down side of deregulation were clear well before the Wall Street collapse… the bungled occupation of Iraq and the response to Hurricane Katrina exposed the top-to-bottom weakness of the public sector, a result of decades of underfunding and the low prestige accorded civil servants from the Reagan years on.”

Siccome noi siamo provinciali, il messaggio arriverà tra qualche anno, mentre nel resto del mondo avranno già pensato a ricostruire un settore pubblico necessario strumento di controllo dell’economia.

Allora, forse, i fustigatori lasceranno il passo ai motivatori, i ‘despoti tascabili’ ai leader con visione e passione. Ma sarà certamente troppo tardi. Altri paesi hanno già capito l’antifona e si muovono per tempo. Leggasi per esempio quello che sta scritto sull’homepage del sito del Ministero della Giustizia della Lettonia, piccola ma dinamica repubblica baltica:

“The main wealth of the Ministry of Justice is its employees – qualified specialists, experts and managing officials with a vast future vision ensuring high quality ministerial work and a perspective opportunity for the Ministry of Justice to become the most efficiently functioning ministry in Latvia and a trustworthy partner in European and international judicial matters.”

Io - Dirigente del Ministero della Giustizia italiano - sarei commosso fino alle lacrime se la mia amministrazione parlasse in questi termini di me e dei miei collaboratori. Ma sono pronto a scommettere che ciò non accadrà né domani né mai.

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Nella foto: un giudice (incidentalmente, mio padre) prepara una sentenza in casa.


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