Le parole non sono innocenti
Dalla cronaca di oggi. Episodio numero uno: cinque balordi a Verona chiedono una sigaretta a un ragazzo. Lui rifiuta, loro lo pestano a sangue. Oggi il ragazzo è morto.
Episodio numero due: un quattordicenne è stato arrestato a Viterbo dalla polizia per aver sottoposto un suo coetaneo a una serie di atti di violenza: gli ha prima bruciato i capelli, poi gli ha spento le sigarette sulle braccia
I due episodi (per tacere della circostanza che un quattordicenne abbia tanta facilità di accesso alle sigarette) vengono così spiegati dalla stampa: il primo è opera di un gruppo “neonazista”, il secondo un episodio di “bullismo”.
Mi si consenta di essere un po' diffidente verso certe etichette. La violenza sui banchi di scuola esisteva già prima che qualcuno inventasse il termine bullismo, ma è la parola che crea il fenomeno: si scambia l’innovazione linguistica per novità sociale.
L’etichetta-didascalia che sottolinea ed illustra l’atto di violenza serve a scomporre la violenza in quanto tale in tanti sottofenomeni: la violenza politica, il bullismo, il nonnismo, la violenza sportiva etc.
Però non è un problema semantico, ma psicologico e culturale. Tanta minuziosa catalogazione denuncia la voglia, meglio, l’ansia, di concettualizzare e razionalizzare l’irrazionale, di spiegarlo come eccezione alla regola, di rimuovere il nostro lato oscuro e barbarico. Definire significa circoscrivere, ed in qualche modo, rassicurarci.
Un chiaro riflesso mentale figlio di quell’illuminismo secondo il quale “l’uomo nasce buono ma è la società che lo rende cattivo” (Rousseau), e il cui percolato intellettuale è il mieloso buonismo dei nostri tempi, il luogo comune e convenzionale – ed ormai tralatizio nelle aule di giustizia - per cui ogni comportamento delittuoso ha le sue radici in supposte colpe della società, ed il colpevole è anche lui un po' vittima.
Insomma, le parole non sono mai innocenti, anche se usate inconsapevolmente.
Episodio numero due: un quattordicenne è stato arrestato a Viterbo dalla polizia per aver sottoposto un suo coetaneo a una serie di atti di violenza: gli ha prima bruciato i capelli, poi gli ha spento le sigarette sulle braccia
I due episodi (per tacere della circostanza che un quattordicenne abbia tanta facilità di accesso alle sigarette) vengono così spiegati dalla stampa: il primo è opera di un gruppo “neonazista”, il secondo un episodio di “bullismo”.
Mi si consenta di essere un po' diffidente verso certe etichette. La violenza sui banchi di scuola esisteva già prima che qualcuno inventasse il termine bullismo, ma è la parola che crea il fenomeno: si scambia l’innovazione linguistica per novità sociale.
L’etichetta-didascalia che sottolinea ed illustra l’atto di violenza serve a scomporre la violenza in quanto tale in tanti sottofenomeni: la violenza politica, il bullismo, il nonnismo, la violenza sportiva etc.
Però non è un problema semantico, ma psicologico e culturale. Tanta minuziosa catalogazione denuncia la voglia, meglio, l’ansia, di concettualizzare e razionalizzare l’irrazionale, di spiegarlo come eccezione alla regola, di rimuovere il nostro lato oscuro e barbarico. Definire significa circoscrivere, ed in qualche modo, rassicurarci.
Un chiaro riflesso mentale figlio di quell’illuminismo secondo il quale “l’uomo nasce buono ma è la società che lo rende cattivo” (Rousseau), e il cui percolato intellettuale è il mieloso buonismo dei nostri tempi, il luogo comune e convenzionale – ed ormai tralatizio nelle aule di giustizia - per cui ogni comportamento delittuoso ha le sue radici in supposte colpe della società, ed il colpevole è anche lui un po' vittima.
Insomma, le parole non sono mai innocenti, anche se usate inconsapevolmente.
Come si voleva dimostrare. Appare persino comico lo smarrimento di certa sinistra, che si era affrettata a fare una marcia antifascista in occasione delle aggressioni a bengalesi al Pigneto. Gli autori sono dei balordi di periferia qualunque, nessuna matrice politica. Ma questo non rende meno grave il fatto. Solo più evidente il settarismo di chi è disposto a manifestare contro la violenza, solo quando essa è politica, o invoca la tolleranza zero contro le morti nei cantieri, perchè quelle morti, secondo loro, dimostrano la natura violenta dell'accumulazione capitalistica. Come se le vittime della violenza non politica fossero meno importanti. Come se i morti negli incidenti stradali fossero morti di serie B.
RispondiEliminaStupirsi che questa gente stia oggi fuori dal parlamento?