Il voto utile



Totò: "Vota Antonio"

Il martellamento sul “voto utile” è stato il leit motiv di questa campagna elettorale. Personalmente sono ben convinto che il mio voto sarà utile: ma ad altri, non certo a me. Quindi andrò alle urne con l’assoluta e desolata convinzione che nulla cambierà. O che, se qualcosa cambierà, lo farà nel senso mirabilmente spiegato dal Tomasi di Lampedusa: affinché tutto resti come prima. Il mondo sta correndo, e non aspetta certo i comodi dell’Italia.

Gli è che la politica conta sempre meno, nei destini di un paese, ed ai nostri politicanti, se non sanno rendersi utili, possiamo solo chiedere di non far danni e di liberare le forze che ancora possono esprimersi.
In un mondo moderno, la vera scheda elettorale, sono le banconote che noi abbiamo nel portafoglio. Votiamo tutti i giorni per decidere quale è il prodotto migliore, l’azienda più affidabile. Ma gli ostacoli a scelte concorrenziali e di mercato sono ancora moltissimi. Lasciare un fornitore di servizi pubblici o una banca, e passare ad un concorrente, costa - nonostante il decreto Bersani. Il consumatore deve pagare una forma di tassa occulta alle rendite di posizione, siano queste a beneficio dei notai o dei tassisti. Il paradigma del codice civile, fondato sulla presunzione liberale dell’eguale volontà delle parti nella formazione del sinallagma, trascura la realtà della maggior parte dei contratti, dove l’unica scelta che ha il consumatore è “prendere o lasciare”.
Dunque la ormai tralatizia polemica antitasse di Berlusconi centra solo una parte del problema. La realtà è che molte forze, non necessariamente dello Stato, interferiscono con le libere scelte del cittadino consumatore. Lo Stato, poveretto, è ormai una figura recessiva.

Sinistra e destra sono state finora singolarmente concordi nel mantenere lo schema marxiano della centralità dei produttori. I rappresentanti dei lavoratori trattano con quelli del padronato, e il benessere dei primi dipende da quello dei secondi. Questo consente a poche persone di decidere per molti.
Qualche tempo fa i rettori di alcune università hanno dichiarato che siccome loro dirigono gli atenei di eccellenza del paese (e l’eccellenza se la sono dichiarata da soli) hanno diritto a una maggior fetta di finanziamenti pubblici. Ecco, questo è un bell’esempio della mancanza di libertà che c’è in Italia: la casta dei baroni si rivolge alla casta dei politici e chiede una maggior fetta dei nostri soldi.

Immaginiamo un altro mondo, in cui questi signori
i nostri soldi se li debbano guadagnare, e siano gli studenti a decidere quale ateneo merita e quale no. Immaginiamo un mondo nel quale se una banca o un gestore telefonico non mi soddisfano posso passare ad un’altra, senza spese, senza cioè pagare una tassa sulla concorrenza. Togliamo i finanziamenti pubblici ai giornali: chi vuole un giornale se lo compra, non deve pagarlo con i soldi delle tasse.
Spostando l’accento sulla centralità del cittadino consumatore, si lascia al mercato, cioè a ciascuno di noi, decidere il miglior prodotto, e dunque l’azienda migliore, la scuola e l’università migliore.
Oggi una maggior libertà significa proprio maggiore libertà economica. Ma nessuno dei contendenti, in campagna elettorale, ci ha promesso nulla del genere…

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