E liberaci dal male oscuro
“Ciò che non ci uccide ci fa più forti”
Se c’è una condizione nella quale si dimostra la verità della nota massima di Friedrich Nietzsche è la depressione. Perché la depressione può uccidere, sia chi ne soffre, sia chi gli sta accanto. Ma per chi trova la forza e la capacità di scendere all’inferno e guardare in faccia il “male oscuro” (nella celebre definizione di Giuseppe Berto), di sciogliere con pazienza ed intelligenza tutti i nodi della sua psiche, di affrontare con tenacia i fallimenti, il premio è l’acquisizione di una nuova consapevolezza. La lotta alla depressione è una gloriosa lotta di liberazione di sé stessi e delle proprie potenzialità, un meraviglioso seppur doloroso viaggio nella propria interiorità alla scoperta del proprio valore e della propria forza.
Il motivo principale per cui la depressione ancora oggi non viene compresa e curata nel modo giusto - benché gli strumenti ci siano tutti - è che essa non è ancora socialmente percepita come una vera malattia. Non solo perché si manifesta subdolamente con situazioni apparentemente fisiologiche, come la tristezza e l’infelicità. Ma anche perché chi ne soffre è ancora oggi oggetto di uno stigma sociale. Si vuole che il depresso sia una persona debole, priva di forza di volontà, e così si scambia l’effetto per la causa: è semmai la depressione a rendere tremendamente difficile vivere, decidere, operare, a minare la volontà e a rendere irresoluti. Da dentro, il depresso si percepisce diverso da come realmente è, “scollato” rispetto alla persona che si presenta all’esterno, nella vita sociale. È una condizione semplicemente terribile.
È bene capire che la depressione è un disturbo chimico-fisico, non un male astratto.
Si tratta – in breve - di un guasto nella circolazione dei componenti chimici che sono responsabili dell’umore. Di conseguenza, qualunque stato d’animo negativo viene ampliato e cronicizzato al punto di escludere vie d’uscita. Essere tristi e infelici è normale: ma il depresso si sente spacciato e senza speranza.
Le cure della depressione sono la parola e i farmaci. Più facile a dirsi che a farsi: in Italia i medici non sanno parlare con i pazienti. E sugli antidepressivi ci sono terroristiche leggende metropolitane. In realtà si tratta di strumenti sicuri, sperimentati ed efficaci.
Ad ampliare il campo della disinformazione, ci si mette ora Panorama, che sbatte in prima pagina un titolone: gli antidepressivi non sono pillole della felicità. Bella scoperta: gli antidepressivi non rendono affatto felici, solo consentono di vivere tutti i sentimenti (compresa l’infelicità) in modo normale. Ma imperterrito, il giornale che una volta aveva per motto “i fatti separati dalle opinioni”, spaccia come notizie tutti i luoghi comuni che da anni impediscono l’efficace trattamento di questo male. È un perfetto saggio di giornalismo incosciente ed irresponsabile.
Chi voglia indagare in modo semplice e chiaro tutti gli aspetti della depressione e del sua cura, compresa l’efficacia degli antidepressivi, farebbe meglio piuttosto ad acquistare un libricino di Giovanni Jervis, il nostro maggiore psicologo dinamico, dal titolo “La depressione” della collana ‘Farsi un’idea’ del Mulino. Jervis non solo da conto dei principali risultati nella lotta alla depressione, ma smaschera anche i fattori culturali che rendono soprattutto in Italia così difficile curarla.
È una lettura utile per tutti. Chi non è toccato dalla depressione forse capirà non solo di non averne alcun merito, ma anche di avere qualche responsabilità, se ha a che fare con un depresso. Una parola affettuosa, e l’esercizio di quella virtù così fuori moda che è la com-passione (letteralmente “soffrire insieme”) possono fare miracoli. E possono insegnare anche ai fortunati indenni da questa malattia del nostro tempo qualcosa di buono su sé stessi.
Se c’è una condizione nella quale si dimostra la verità della nota massima di Friedrich Nietzsche è la depressione. Perché la depressione può uccidere, sia chi ne soffre, sia chi gli sta accanto. Ma per chi trova la forza e la capacità di scendere all’inferno e guardare in faccia il “male oscuro” (nella celebre definizione di Giuseppe Berto), di sciogliere con pazienza ed intelligenza tutti i nodi della sua psiche, di affrontare con tenacia i fallimenti, il premio è l’acquisizione di una nuova consapevolezza. La lotta alla depressione è una gloriosa lotta di liberazione di sé stessi e delle proprie potenzialità, un meraviglioso seppur doloroso viaggio nella propria interiorità alla scoperta del proprio valore e della propria forza.
Il motivo principale per cui la depressione ancora oggi non viene compresa e curata nel modo giusto - benché gli strumenti ci siano tutti - è che essa non è ancora socialmente percepita come una vera malattia. Non solo perché si manifesta subdolamente con situazioni apparentemente fisiologiche, come la tristezza e l’infelicità. Ma anche perché chi ne soffre è ancora oggi oggetto di uno stigma sociale. Si vuole che il depresso sia una persona debole, priva di forza di volontà, e così si scambia l’effetto per la causa: è semmai la depressione a rendere tremendamente difficile vivere, decidere, operare, a minare la volontà e a rendere irresoluti. Da dentro, il depresso si percepisce diverso da come realmente è, “scollato” rispetto alla persona che si presenta all’esterno, nella vita sociale. È una condizione semplicemente terribile.
È bene capire che la depressione è un disturbo chimico-fisico, non un male astratto.
Si tratta – in breve - di un guasto nella circolazione dei componenti chimici che sono responsabili dell’umore. Di conseguenza, qualunque stato d’animo negativo viene ampliato e cronicizzato al punto di escludere vie d’uscita. Essere tristi e infelici è normale: ma il depresso si sente spacciato e senza speranza.
Le cure della depressione sono la parola e i farmaci. Più facile a dirsi che a farsi: in Italia i medici non sanno parlare con i pazienti. E sugli antidepressivi ci sono terroristiche leggende metropolitane. In realtà si tratta di strumenti sicuri, sperimentati ed efficaci.
Ad ampliare il campo della disinformazione, ci si mette ora Panorama, che sbatte in prima pagina un titolone: gli antidepressivi non sono pillole della felicità. Bella scoperta: gli antidepressivi non rendono affatto felici, solo consentono di vivere tutti i sentimenti (compresa l’infelicità) in modo normale. Ma imperterrito, il giornale che una volta aveva per motto “i fatti separati dalle opinioni”, spaccia come notizie tutti i luoghi comuni che da anni impediscono l’efficace trattamento di questo male. È un perfetto saggio di giornalismo incosciente ed irresponsabile.
Chi voglia indagare in modo semplice e chiaro tutti gli aspetti della depressione e del sua cura, compresa l’efficacia degli antidepressivi, farebbe meglio piuttosto ad acquistare un libricino di Giovanni Jervis, il nostro maggiore psicologo dinamico, dal titolo “La depressione” della collana ‘Farsi un’idea’ del Mulino. Jervis non solo da conto dei principali risultati nella lotta alla depressione, ma smaschera anche i fattori culturali che rendono soprattutto in Italia così difficile curarla.
È una lettura utile per tutti. Chi non è toccato dalla depressione forse capirà non solo di non averne alcun merito, ma anche di avere qualche responsabilità, se ha a che fare con un depresso. Una parola affettuosa, e l’esercizio di quella virtù così fuori moda che è la com-passione (letteralmente “soffrire insieme”) possono fare miracoli. E possono insegnare anche ai fortunati indenni da questa malattia del nostro tempo qualcosa di buono su sé stessi.
Dal
RispondiEliminaCorriere della Sera 8.2.09
La scomparsa della tristezza
di Vittorino Andreoli
Il romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse, esce nel 1954. Un successo strepitoso, l'autrice aveva 18 anni. Il film, diretto da Otto Preminger, è del 1958. Tutto accade appena in tempo, se si pensa che l'imipramina, il primo antidepressivo, nasce nel 1957-8. Questione di pochi mesi e si sarebbe potuto scrivere al posto di Bonjour tristesse, Bonjour Imipramine.
La tristezza è stata ammazzata: i tristi amori, scomparsi. Non esiste più nemmeno come parola, cancellata dall' uso corrente. Morti anche termini come "inquietudine" (l'"inquieto è il mio cuore finché non riposa in Te" di Agostino); come "anelito", "disperazione" (disperata attesa). Tutto è stato buttato dentro depressione e depressione si coniuga necessariamente a antidepressivo. Il demone sconfitto dal Bene dei farmaci, dalla chimica dalle formule magiche uscite dai laboratori scientifici delle grandi industrie farmaceutiche. La lotta tra il male, la depressione e il bene, l'imipramina o gli SSRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina).
Sarebbe tempo di occuparsi della uccisione delle parole, delitti che andrebbero puntiti severamente. E' capitato anche per l'angoscia, l'angustia, la trepidazione, il timore, il tremore (interiore). Il grande capolavoro di Kierkegaard
Timore e tremore nasce nel 1843, lontano per fortuna dal 1961: anno della nascita delle benzodiazepine. Soren lo avrebbe dovuto chiamare Anxiety and Benzodiazepines e lo avrebbe dovuto pubblicare sul New Scientist. Nemmeno più regge la distinzione tra ansia e angoscia ( Angst di Freud) che trasmette, anche in immagine, il trovarsi dentro un vicolo stretto che si chiude, come pare accadere per la trachea che non lascia più passare aria e si avverte la fine, la morte.
La tristezza sembra non esistere più, non far parte dei nostri sentimenti, di quella sequela di vissuti esistenziali che pur vicini tra loro hanno caratteristiche differenti, capaci di distinguere ciò che viviamo con partecipazione differente, con un dolore che sa di pietà o di disperazione.
Sono un vecchio psichiatra ormai e mi pare di appartenere alla categoria dei rulli compressori, quelli che rendono tutto piatto: un rullo compressore dei sentimenti. Per semplificare tutto e per rendere possibili i rapporti automatici tra sintomi e farmaci, bisogna certo semplificare. Anche perché qualcuno non si metta a cercare e a trovare il farmaco contro la trepidazione e poi uno specifico per la tristezza .
Tutto è anxiety e depression. Tutto è antidepressivo e ansiolitico.
La vita dei sentimenti si è impoverita e ormai per essere certi di non avere una prescrizione di psicofarmaci bisogna non avvertire più niente, essere sentimentalmente vuoti. Aveva ragione Benedetto Croce: se eliminiamo le parole scompaiono i concetti e oggi — egli direbbe — persino i sentimenti. Forse anche per questo i poeti tacciono, temono di essere tutti curati per anxiety and depression.
Bisognerebbe ripartire dall'uomo, e non dai sintomi e dai farmaci, per fare una nuova psichiatria.
Un bell'articolo, profondo e provocatorio. Ma chi ha sofferto veramente di depressione sa che con la tristezza non ha nula a che fare: piuttosto con la più cupa disperazione, con lo scollamento da ogni prospettiva vitale.
Guai dunque a tornare a pensare alla depressione come a un dolore che 'fa crescere': essa è piuttosto uno stato vegetativo dell'anima: chi ci è passato non ne sente alcuna nostalgia. Laddove la tristezza, a volte, può avere una sua mesta bellezza.