La libertà è partecipazione, ricordi?

Le notti insonni hanno almeno questo di buono: permettono di riscoprire la televisione. Ad ore antelucane infatti, la RAI riesce ancora a passare qualche buon film. Ho seguito quindi con interesse Aldo Fabrizi in Siamo tutti inquilini, un film del 1953 con Peppino De Filippo e Maurizio Arena. La trama è semplice: una ragazza eredita un appartamento da una signora presso la quale prestava servizio, ma non avendo a disposizione molti mezzi, raramente riesce a pagare le spese condominiali. L'amministratore vorrebbe approfittare della situazione per sottrarre la proprietà alla giovane, ma il portiere, Aldo Fabrizi, prende le sue difese.

Sembrerebbe una facile commediola di costume. Eppure sono rimasto impressionato dal significato politico della trama, ben mascherato dai toni leggeri.
La serva che diventa padrona, è evidentemente il proletariato che è assurto al benessere, ma le cui conquiste sono ancora precarie. Ricordo, ora che ci penso, altre commedie del dopoguerra, in cui si parla del disagio dei borghesi a coabitare con ex sfollati, e la loro aspirazione a un ordine che rimetta ognuno “al suo posto”. Il condominio è una metafora della democrazia: l’amministratore spadroneggia non perché eserciti il suo potere con mezzi illeciti, ma solo a causa del disinteresse degli altri inquilini. Che infatti, alla fine della storia, saranno convinti da Aldo Fabrizi a rinunciare ad uscire per una sera ed a venire all’assemblea condominiale per occuparsi degli affari comuni. E potranno finalmente liberarsi del tirannico amministratore.

La morale della favola sembra essere: “attenzione, la democrazia viene uccisa dal disimpegno, più che dai colpi di stato. Partecipare è importante”. Era il 1953, la guerra e la dittatura erano passate da poco, ma già il benessere sembrava distrarre gli italiani.
Vale la pena di ripassare la lezione, oggi che si discute di sistemi elettorali ed amenità varie. Quasi come se il problema fosse individuare qualche miracolosa formuletta che possa darci governi stabili, e non colmare l’immenso gap che ormai c’è, ad ogni livello, tra il popolo e i suoi rappresentanti.

Chi fa più politica sul territorio? Il disinteresse verso la cosa pubblica viene ormai coltivato ed apertamente incoraggiato. Un termine come “partecipazione”, è ormai un relitto degli
anni 70. Non si mobilitano più le coscienze, anzi, da destra e da sinistra tutti sembrano dirci: "state a casa, pensate alle vostre occupazioni, riempitevi la pancia, e delegate, alla politica ci pensiamo noi. Basta che vi svegliate periodicamente per andare a votare, a distribuire le carte che poi noi giocheremo".

Partecipare costa, si fa fatica, occorre informarsi. Perché darsi pena se qualche volenteroso lo fa al posto nostro? Sono convinto che se l’Italia ha conosciuto la dittatura non è stato per amore dell’Ordine, come per i tedeschi, ma per pigrizia mentale. Oggi la dittatura è soft, non si nutre di cupe milizie, goffe divise, parole d’ordine, assolutamente. Come nel condominio di Aldo Fabrizi, a furia di delegare ad altri, la volontà di pochi si è sostituita alla volontà generale.

Tutto questo disimpegno ha però un costo: il nostro declino economico, l’immobilismo sociale, per cui oggi più di prima i figli ereditano il mestiere dei padri, e non a caso Gian Antonio Stella ha titolato il suo libro “La Casta”.

Forse occorrerebbe diffondere per radio, ogni giorno, a beneficio dei nostri ignavi compatrioti, quella canzone di Giorgio Gaber:

La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.

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