Fotografo, dunque esisto



Detesto gli intellettuali
. Istintivamente. Aborrisco particolarmente i professori universitari. Il XX secolo ha visto una crescita senza precedenti del ruolo degli intellettuali, ed assolutamente esagerata: un tempo cortigiani al servizio del potere politico, nella veste di tecnici competenti nella gestione e soluzione di problemi, si sono trasformati nella figura ieratica del maître à penser, l’oracolo che si è attribuito il ruolo di depositario dei valori, di vestale di un’Idea che va preservata pura da ogni contaminazione della realtà.

Mie vecchie fisime, questioni di pelle, ma mi accorgo con gli anni che esse hanno una qualche ragion d’essere. Voglio dire che tra l’atteggiamento verso la vita ed il mondo proprio degli intellettuali e quello delle persone come me, c’è l’abisso,
uno iato incolmabile, l’assoluta e perfetta antitesi. I primi partono da una loro idea e attraverso quella guardano la realtà, ma solo per trovarvi conferma alle loro idee, noialtri cerchiamo di osservare la realtà senza filtri, quale essa è, e, sulla base dell’esperienza, formulare una sintesi sempre suscettibile di essere rimodulata ed arricchita.

Prendiamo ad esempio uno come Schopenauer:
con il suo amore e la sua profondissima competenza sull'India, nutrita da una vastissima biblioteca, egli influenzò un’intera generazione. Eppure in India lui non ci andò mai... Ne scriveva in modo incantevole, affascinante, ma tutto ciò che il lettore apprende da lui non riguarda l’India vera, ma l’idea che se ne fece Schopenauer: ben documentata, ma non per questo meno arbitraria. Il suo epigono, Herman Hesse - l’autore di Siddhartha - almeno fece lo sforzo di mettersi in viaggio. Ma arrivò solo a Ceylon, piegato dalla dissenteria. Tutto quello che vide lo schifò ed infastidì, e così decise di tornare indietro.

Sono due buoni esempi del fatto che gli
intellettuali hanno del mondo una conoscenza libresca e preconcetta. Per loro la realtà è qualcosa da rifuggire o da ridurre a teoria.

Via, non scopro nulla di nuovo: è l’eterno conflitto tra idealisti e realisti, tra platonici ed aristotelici, mirabilmente semplificato nell’affresco raffaellita della “Scuola d’Atene”. La scoperta, semmai, è che certe mie passioni, come quella per la fotografia, sono pour cause: sono anti-intellettuale, dunque sono un fotografo.

Trovo conferma di questa idea durante la lettura del saggio “Sulla Fotografia” di Susan Sontag. È un libro celebre di una celebre intellettuale newyorkese. In verità non ho mai letto niente di così balordo, e lo consiglio vivamente a chi ha € 15 da buttare. Bastano le prime pagine per capire che la Sontag non ha mai tenuto veramente in mano una macchina fotografica, non ha mai provato l'emozione di inastare un obiettivo nella sua baionetta, non ha mai sperimentato il particolare rapporto che si crea tra il fotografo e il suo soggetto, specie nella ritrattistica. È un libro “intellettuale”, appunto, dove non si apprende nulla sulla fotografia quale essa è, ma solo sulle idee (o meglio: sui pregiudizi) di Susan Sontag sulla fotografia.

La Sontag mette tutto insieme: foto d’arte, pubblicitaria, turistica. Scrive in più punti che l’atto del fotografare è una forma di “aggressione”, che stabilisce tra il fotografo e il suo soggetto una relazione di “potere”, “appropriazione” (“L’atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio”). In un crescendo di frescacce, arriva al paragone tra macchina fotografica e fallo: “l’atto di fare una fotografia… è un’apparenza di stupro”, “la fotografia è… una copulazione eroica col mondo materiale”.
Do una veloce occhiata alle note biografiche: apprendo che la Sontag fu una teorica del movimento femminista. Ah! Così m’imparo a non leggere il dorso dei libri, prima di comprarli...
Allora, se la macchina fotografica = fallo; uomo = stupratore; ne segue che fotografare = stuprare. Ma questa non è la fotografia: questo è il modo in cui una intellettuale femminista vede il sesso e in questa chiave tutto ciò che lontanamente le ricorda il sesso. È sessuofobia che diventa iconoclastia.

Ecco cos’è un intellettuale: uno che interpreta la realtà, piuttosto che viverla. Un fotografo invece entra nel mondo cercando di liberarsi di tutte le sovrastrutture mentali, di catturare la realtà quale essa è davvero, fare un’esperienza immediata. Può un intellettuale capire un fotografo? Nemmeno in un milione di anni.

Basterebbe poco, del resto (sapendo di fotografia), per confutare l’imbarazzante paragone. Certo, uno zoom telescopico può essere visto come un oggetto fallico, “maschio”: ma allora un grandangolo, così ampio e avvolgente, è “femmina”. Come è pure “femmina” il corpo macchina, la camera oscura dove ha luogo il processo chimico che porta alla creazione di una nuova realtà.

Poco dopo, e contraddittoriamente, la Sontag ci dice che la macchina fotografica è un “diaframma” che il fotografo interpone tra sé e il mondo. Una manifesta sciocchezza, visto che la macchina fotografica è essenzialmente un complesso di lenti, e, come gli occhiali o i telescopi, essa non serve per isolarsi dalla realtà, ma al contrario per immergervisi dentro, e guardarla meglio.
Fin qui, stupidaggini. Dove raggiungo il picco di indignazione è quando leggo queste frasi: “Fotografare è essenzialmente un atto di non intervento”… “Fare una fotografia significa avere interesse per le cose quali sono, desiderare che lo status quo rimanga invariato… essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato, compresa, se l’interesse consiste in questo, la sofferenza o la sventura di un’altra persona”. Ripenso ai tanti fotografi morti per dare voce alle sofferenze di popoli lontani mentre gli intellettuali scaldasedie pontificavano da ben protette cattedre, ripenso al fotografo giapponese ucciso in Birmania, che scatta un’ultima fotografia al soldato che lo sta finendo (Kenji Nagai, sia qui onorato il suo nome) - e con un preciso, liberatorio gesto del polso il celebre saggio della celebre intellettuale dei miei stivali finisce nella pattumiera.

Susan Sontag era solo una stronza.

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Nella foto: Autoritratto a Londra,© Dario Quintavalle, 2007

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