Quant'è bella l'Italia nella mischia

Mi sono cimentato col rugby in un paio di occasioni, una nel lontano 1980, in Irlanda, nello storico stadio di Lansdowne Road, a Dublino, e una decina di anni più tardi, quando il leggendario capitano maori degli All Blacks, Wayne “Buck” Shelford, che allora correva con gli Hash House Harriers di Roma, ci insegnò alcuni passaggi e la famosa haka “Ka Mate”. In entrambe le occasioni mi sono divertito moltissimo, pur uscendone malconcio.

Non posso che rallegrarmi che questo formidabile sport stia prendendo piede anche in Italia. Il torneo delle Sei Nazioni che si è chiuso oggi è stato il più fulgido per i colori italiani, con ben due vittorie. La nostra squadra comincia ad essere presa sul serio: sono ben lontani i tempi in cui la Tv francese, per annunciare un match con l’Italia mandava un trailer con una tizia che dava una schicchera ad un’oliva su una pizza dicendo “O-là-là, les Italiéns jouent au Rugby!”.

Nell’Italia calciodipendente, dove si va allo stadio come alla guerra, e un infame Matarrese può dichiarare che anche un poliziotto morto negli scontri post-partita fa parte del gioco, il Rugby, con i suoi giocatori rudi ma leali, i suoi tranquilli tifosi che sciamano festanti per le strade con i kilt e con una pinta di Guinness in mano, sembra venire da un altro pianeta.

Tifiamo per la Nazionale, ma soprattutto tifiamo per il Rugby: un Sei Nazioni onorevolmente perso, vale quanto, o più, di un Mondiale di Calcio vinto.

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