Cervelli in fuga?

Ci risiamo! Dolenti servizi giornalistici sul fenomeno dei “cervelli in fuga”, ricercatori che tornati dall’estero si dolgono dello stato delle cose nell’università italiana, alti lai sul triste destino di questi poveri profughi della scienza, costretti ad abbandonare la Patria per cercare fortuna altrove. Ma le cose stanno davvero così?

Negli anni 2004-2005, per ragioni di lavoro e di sentimento, ho avuto occasione di vedere da vicino l’ambiente accademico. E non mi è piaciuto per niente.

Non amo affatto gli accademici. Ho un’idea ingenuamente umanistica della cultura: per me nasce per contatto tra idee e ambienti differenti, sgorga da spiriti liberi e completi. Mi pare di ricordare che tal Isaac Newton intuisse la legge di gravità mentre pisolava sotto un melo.

Non mi ispirano nessuna simpatia, invece, questi nevrotici gnomi iperspecializzati - la cui carriera è fatta di pubblicazioni (non di brevetti, si di bene: non di applicazioni pratiche e utili delle loro scoperte, solo di pezzi di carta che vengono valutati da loro compari) per compilare le quali passano tutto il tempo isolati in un qualche centro di ricerca, che per quanto li riguarda, potrebbe anche essere in fondo al mare.

Questa è l’Università: un mondo autoreferenziale, con proprie regole ai limiti della mafiosità. Chi entra a farne parte conosce bene queste regole e le accetta: quindi ne è complice. Come in tutte le cosche, ci sono i vincenti e i perdenti. Quelli che perdono, vanno all’estero: non mi pare poi un destino così triste.

Quello dei “cervelli in fuga” è un luogo comune, come la mucca pazza, l’elettrosmog, l’agricoltura biologica, la birra Heineken, e tante altre entità immaginarie della cui esistenza siamo convinti solo perché c'è un’etichetta facilmente memorizzabile.

Io affermo che il fenomeno dei “cervelli in fuga” NON ESISTE. Non è affatto vero che i ricercatori italiani siano COSTRETTI ad emigrare all’estero: la classe accademica mondiale è altamente globalizzata ed è quindi perfettamente normale e fisiologico che la carriera di queste persone si svolga, in tutto o in parte, lontano dal paesello natio. In tutti i paesi, non solo in Italia, chi abbraccia la carriera accademica e vuole progredire, sa che il suo destino è di andare saltabeccando in giro per il mondo, da un incarico all’altro, quindi affronta i problemi relativi e paga i prezzi del caso, primo tra tutti la rinuncia alla vita privata.

Questo stile di vita seleziona naturalmente persone agghiaccianti, prive tanto di radici col luogo d’origine, quanto di legami con l’ambiente circostante.
I grandi centri di ricerca (tutti grottescamente simili, nell’architettura, a una boccia per i pesci rossi) sono luoghi di raduno di persone che vengono da tutto il mondo, e che passano la vita chiusi nei propri laboratori a fabbricare le famose pubblicazioni.
Gli accademici costituiscono una comunità che si rappresenta come cosmopolita, ma che in realtà è solo “apolide”, in quanto del tutto avulsa dalla realtà che la circonda: io ho vissuto un anno a Trieste e mai che abbia avuto occasione di conoscere uno dei tanti ricercatori della Sissa. D
el resto, quando un tizio passa la vita chiuso in un cubicolo davanti a un computer, fa molta differenza dove il cubicolo si trova?

Cos’hanno, dunque, da lamentarsi i nostri ricercatori? Il loro mondo offre altissime opportunità a chi le vuole cogliere: il mercato dei cervelli è globale e virtualmente senza ostacoli; dunque, economicamente un mercato ‘perfetto’, che permette il libero incontro e la migliore allocazione della domanda e dell’offerta, e per questo caratterizzato da una fortissima mobilità dei fattori produttivi. Sono poche le categorie produttive che hanno l'opportunità di poter vendere il loro lavoro in tutto il mondo: altro che
"fuga"!

Certo, lontano da casa la vita è dura, così qualcuno ritorna, per nostalgia del sole o degli spaghetti di mammà. Faccio tanto di cappello a persone capaci di fare – per ragioni di cuore, o di stomaco - scelte economicamente irrazionali: in quell’ambiente di anaffettivi déracinées, rappresentano pur sempre un bell’esempio di fedeltà alle cose concrete e ai sentimenti. Però non si può negare che nel mondo accademico le opportunità esistono, anche se poi c’è gente che per motivi suoi non le vuole o non le può cogliere.

Da che mondo è mondo le risorse vanno normalmente dove sono meglio remunerate: pertanto, qualunque azione sul lato dell’offerta, mirante a far rientrare i ‘cervelli’, è destinata a fallire. La scarsa concorrenzialità del mercato italiano risiede in una ragione molto semplice: manca la domanda. Noi, per chi non se ne fosse accorto, siamo un paese in forte deindustrializzazione già da vent’anni. Non abbiamo più chimica, siderurgia, informatica, radiotecnica, nucleare, aeronautica civile, etc. La nostra economia è finora sopravvissuta grazie a un tessuto di piccole imprese artigianali a livello familiare e a basso valore aggiunto. I danari rientrati grazie allo scudo fiscale di Tremonti sono stati investiti nel mattone, non certo in progetti strategici.

Ebbene, al distretto della piastrella o a quello del divano, come pure agli immobiliaristi, un superlaureato in neuroscienze, biotech, astrofisica, semplicemente non serve. I grandi investimenti in R&S al mondo li fanno i colossi multinazionali, non le aziendine a conduzione familiare del Nord-Est. Anche se si trovasse il modo di farli rientrare tutti, questi benedetti cervelloni, non avremmo nulla da fargli fare.

Quindi il dramma non sta nella supposta fuga di cervelli, ma nel paese tout court. Nel quale non a caso, prosperano coloro che possono vivere di rendite di posizione. Se il paese fosse competitivo, non solo la gente non se ne andrebbe, ma attirerebbe nuove energie.

La nostra università intanto, va avanti non perché produca brevetti, ma perché è una delle ultime incubatrici della classe politica italiana. Una cattedra universitaria di rango è un trampolino di lancio prestigioso per un seggio parlamentare o per la presidenza di una municipalizzata. I soldi vengono da lì e il sistema si autoalimenta e si garantisce la sopravvivenza, al riparo dalle fredde leggi del mercato.
Stupirsene? Per comprendere quale sia stato il contributo al progresso morale e civile del nostro paese della classe accademica, basterebbe la lettura di “Preferirei di no” (G.Boatti, Einaudi, 2000), la storia dei dodici professori universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo: solo dodici su 1250!
Come ci si può aspettare che una scuola di conformismo come questa possa produrre idee innovative e originali?
Togliere il valore legale al titolo di studio, spezzare il monopolio dell’università nella produzione della cultura, sarebbe il primo passo per liberarsi dell’aristocrazia dei baroni.

La crisi del sistema Paese del resto dipende ben poco dall’università: i cervelli, magari fuggono, ma intanto ci sono. Quelle che, sempre più drammaticamente si dimostrano incapaci di rinnovarsi e di riprodursi – talchè come facevo notare anzitempo, la campagna elettorale si è giocata sulla contesa tra due settantenni - sono le classi dirigenti e gli imprenditori coraggiosi (coraggiosi, non spregiudicati: quelli ne abbiamo a bizzeffe) . Lì sì che bisognerebbe intervenire.

Invece di preoccuparci di questi espatriati di lusso, dobbiamo dolerci del triste futuro che attende chi è costretto a restare.


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Vedi ora la mia voce "Fuga di Cervelli" su Wikipedia
E questo articolo simpaticamente controcorrente dal titolo "Viva la fuga dei cervelli!

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